Diritti / Opinioni
Le notizie false che cambiano il mondo
Quindici anni fa, con una “fake news”, iniziava l’invasione dell’Iraq. Come allora, anche oggi diffondere notizie false -come parlare di “invasione” di migranti- è una pratica che gode di ottima salute. Italia compresa. L’editoriale del direttore di Altreconomia, Pietro Raitano
Era il 5 febbraio 2003 quando l’allora segretario di Stato degli USA Colin Powell tenne un discorso di fronte al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 il presidente George W. Bush puntava a un attacco all’Iraq di Saddam Hussein ma la comunità internazionale stava riuscendo a fermare l’iniziativa, convincendo anche l’opinione pubblica dell’assurdità e dei rischi dell’operazione. Il tema del discorso di Powell quel giorno erano le armi batteriologiche in possesso dell’Iraq. Un discorso molto coinvolgente, durante il quale, e con un gesto molto teatrale, il segretario mostrò ai rappresentanti degli altri Paesi una fiala che conteneva una polvere bianca: un quantitativo simile di antrace avrebbe potuto uccidere tutti i presenti, spiegò. Aggiungendo che l’Iraq avrebbe potuto produrre circa 25mila litri di antrace. Powell mostrò immagini satellitari, grafici e foto che a suo dire provavano l’esistenza di un grande programma iracheno di armi chimiche e batteriologiche.
Era tutto falso. Era tutto ciò che oggi chiameremmo una fake news. Quella fake news però portò all’invasione dell’Iraq, che ebbe inizio il 20 marzo 2003. Sono passati 15 anni. Secondo l’osservatorio indipendente Iraq body count, le perdite fra la popolazione irachena (“morti violente fra i civili”) fra il marzo 2003 e il settembre 2007 ammontano a una cifra compresa tra 74.427 e 81.114. L’Organizzazione mondiale della sanità è più pessimista, e stima -per il periodo marzo 2003-giugno 2006- tra 104.000 e 223.000 morti violente tra i civili iracheni. L’invasione dell’Iraq scatenò l’instabilità di quella parte del mondo, che ancora oggi miete vittime e fomenta terrorismo internazionale. A Nord-Est dell’Iraq c’è ad esempio la Siria, martoriata da sette anni di guerra feroce, fratricida (il corteo del 15 marzo 2011 a Damasco, contro il regime, fu una delle scintille che scatenò la repressione): almeno 350mila vittime, oltre 5 milioni di profughi in fuga dal Paese. Molti sono passati dalla Turchia, che sta a Nord della Siria e dell’Iraq, il regime dove i giornalisti vengono incarcerati insieme agli attivisti per i diritti umani. La Turchia da gennaio ha attaccato la Siria nel territorio della città di Afrin, controllata dalla popolazione curda: bombardamenti aerei prima, truppe di terra poi. La Turchia è quel Paese col quale -proprio due anni fa- l’Unione europea ha stretto un accordo per fermare -a suon di euro- l’esodo di profughi verso occidente. Lo stesso scopo per il quale, proprio un anno fa, è stato stretto un accordo con la Libia -o meglio con chi crede di rappresentarla-: euro in cambio di lager, torture, minacce alle ong che salvano i migranti in mare, genitori separati dai figli, per fermare l’“invasione”.
L’“invasione” è evidentemente un’altra fake news, clamorosa e insostenibile come quella di Powell di 15 anni fa, che però è stata protagonista in tante campagne elettorali europea, da ultima quella italiana. Dal 5 marzo il tema guarda caso non fa più parte dell’agenda politica di alcun partito, anche se ha contribuito alla vittoria di alcuni tra questi, ad esempio di chi parlava di “taxi del mare”.
E a proposito di fake news, lasciate che vi raccontiamo un episodio. Nel numero di marzo abbiamo raccontato del fenomeno delle revoche dell’accoglienza per i richiedenti asilo: un esempio di come il sistema che gestisce la migrazione in Italia non sia capace di garantire i diritti dei migranti sul nostro territorio, abbandonandole al loro destino e creando disagio sociale. I numeri dell’inchiesta sono stati presi e utilizzati in un pezzo del quotidiano “La Verità”, diretto da Maurizio Belpietro. Il pezzo ha come titolo “Ci siamo presi 80mila scalmanati che hanno già perso il diritto di asilo” e la firma del pezzo è nientemeno che del responsabile nazionale della cultura per CasaPound. Il loro metodo è stato questo: prendere il nostro articolo, fraintenderne deliberatamente il contenuto e ribaltare il nostro intento -denunciare un’ingiustizia- ai propri fini -attaccare i migranti che non hanno diritto di stare in Italia e sono un pericolo-.
Metodo consolidato, visto che purtroppo qualcuno che crede alle fake news si trova sempre.
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