Diritti / Inchiesta
Non solo Jobs Act. Inchiesta sul lavoro in Italia
Tra contratti a termine, incentivi a pioggia, licenziamenti facili e giustizia a caro prezzo le “riforme” degli ultimi tre anni hanno cambiato per sempre il nostro Paese. Nel nome della “flex-security”
Se siete stati assunti da un’impresa con più di 15 dipendenti dopo il 7 marzo 2015, rischiate di far parte della bolla dei licenziamenti senza reintegro che potrebbe scoppiare a partire dalla primavera di quest’anno. Quel giorno, infatti, lo Stato ha tracciato una linea. Da una parte, un certo tipo di lavoratori (quelli assunti prima) e dall’altra gli assunti dopo. Per questi, finiti oltre la linea, lo “Statuto dei lavoratori” del 1970 e il famoso articolo 18 -quello che riguarda anche i casi di licenziamento illegittimo- non valgono più come prima.
È uno degli effetti del cosiddetto “Jobs Act” (la legge 183/2014) e di uno dei “suoi” otto decreti legislativi.
Per chi oggi si ritrova nel campo del “dopo”, il reintegro nel posto di lavoro scatta soltanto per i casi di licenziamento discriminatorio, nullo o verbale. In tutte le altre circostanze -licenziamenti senza giustificato motivo o giusta causa, oggettivi e soggettivi, individuali o collettivi- la reintegrazione è sostituita dal pagamento di un’indennità a carico del datore di lavoro, proporzionale alla durata del rapporto. Da lì è nata l’etichetta “tutele crescenti”, che in realtà sta per “corrispettivi crescenti”. Le “conseguenze” di quella linea, però, si potranno misurare solo a partire da oggi. “Il Jobs Act -spiega Franco Scarpelli, professore di Diritto del lavoro all’Università di Milano Bicocca e avvocato del lavoro- prevede che quel lavoratore licenziato che ottenesse dal giudice un provvedimento per il quale il licenziamento subìto non fosse giustificato, questi non ha il diritto a tornare al suo posto ma al massimo a un indennizzo forfettizzato dalla legge in una misura di due mensilità per ogni anno di anzianità”. Attenzione: “L’indennità minima è di 4 mesi -ricorda Scarpelli- quindi solo dopo due anni quel ‘rimborso’ a carico del datore di lavoro inizierà a crescere”. Il periodo “ponte” è terminato nel marzo di quest’anno. E gli effetti a cascata del contratto a tempo indeterminato privo delle tutele dell’articolo 18 potrebbero manifestarsi.
E non è detto che gli strascichi della “bolla” possano finire in tribunale. Da anni, infatti, il lavoro è uscito dalle aule. Secondo il ministero della Giustizia, dal 2012 al 2016 le cause di questa natura sono diminuite di un terzo e le liti sulla cessazione del rapporto del 69%. “Durante i governi Monti e Letta, sulla spinta delle richieste delle istituzioni europee e del Fondo monetario internazionale -spiega Scarpelli-, sono stati adottati provvedimenti che hanno reso di fatto più costoso l’accesso a questo tipo di giudizio, accentuando uno squilibrio tra le forze economiche in campo. Gli ostacoli sono due. Il primo, è quello delle imposte che chi accede al giudizio deve pagare, e cioè il contributo unificato. Una volta il processo del lavoro era tutto gratuito, sia per i lavoratori e sia per le imprese, mentre adesso prevede comunque un’imposizione, che peraltro cresce a seconda del grado di giudizio e può diventare molto pesante in Appello e in Cassazione. Stiamo parlando di migliaia di euro che costringeranno quel lavoratore che volesse impugnare il suo trasferimento a pensarci bene prima di aprire un contenzioso.
Il secondo aspetto, quello a mio parere più grave, è che è stata cambiata la norma relativa alla liquidazione delle spese legali. Dall’inizio degli anni Settanta, era diffusa una prassi per la quale il lavoratore ‘sconfitto’ non veniva condannato al pagamento delle spese, eccetto nei casi in cui la lite fosse superficiale o ‘introdotta’ ingiustamente. Ma se in passato impugnare un licenziamento, un trasferimento, una modifica di mansioni, non potendo a priori avere gli elementi per una valutazione certa di come sarebbe andata la causa, costituiva un rischio che il lavoratore si poteva permettere di correre, oggi non è più così. La legge, infatti, non consente più di compensare le spese”. Facciamo un esempio. “Si metta nei panni di un lavoratore precario che voglia far valere il fatto che quel contratto a termine con il quale è stato assunto possa essere contestato per ottenere delle differenze retributive. E che a questi venga detto che in caso di sconfitta il rischio possa esser quello di ‘tirare fuori’ 4mila o 5mila euro. Quanti lavoratori pensa che possano permettersi il passo? Ed è questa una delle ragioni del calo del contenzioso. Tant’è vero che sulla norma in questione (l’ultimo intervento è contenuto nel decreto legge 132/2014, ndr) sono state sollevate delle questioni di legittimità dinanzi alla Corte costituzionale. Nei prossimi mesi ci sarà il giudizio della Consulta. E spero che questa regola possa essere riconosciuta come incompatibile con i principi della nostra Costituzione, in particolare con l’articolo 24 che sancisce il diritto alla giustizia”.
Ma se quella dei “licenziamenti agevolati” è un’ipotesi, il boom dei contratti a tempo determinato -che sulla carta dovrebbero esser l’eccezione a fronte dei rapporti “tipo”, cioè quelli a tempo indeterminato- è già realtà. Nel 2014, come si legge nel report dell’Osservatorio sul precariato curato dall’INPS e pubblicato nel dicembre scorso, su 100 rapporti di lavoro attivati, 61 erano assunzioni a termine. Nel 2016, invece, dei 5.803.714 rapporti attivati, ben 3.736.700, ovvero il 64,4%, sono state “assunzioni” a tempo determinato. E a fine anno la tendenza è stata ancora peggiore: nel terzo trimestre 2016 -dati ministero del Lavoro- i rapporti di lavoro attivati di tipologia “determinato” sono stati il 71,3% (solo il 17% quelli a tempo indeterminato). Come è stato possibile, negli anni del dichiarato “successo” del contratto a tempo indeterminato reso ormai “flessibile” grazie alle “tutele crescenti” (o indennità), aggravare ancor di più il peso dei contratti a scadenza sulla platea dei lavoratori?
Nel marzo 2014, prima ancora del Jobs Act, un decreto legge del ministro Giuliano Poletti liberalizzò definitivamente i contratti a tempo determinato anche senza “causa”
Una prima risposta si può trovare in un provvedimento approvato nel marzo 2014, nove mesi prima della legge delega 183 (la fonte del “Jobs Act” e delle sue componenti), che porta il nome dell’allora (e ancora oggi) ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Per decreto legge si diede di fatto il via libera a contratti a termine privi di una “causa” (che ne giustificasse la rinuncia all’indeterminato): avevano la durata massima di 36 mesi ed erano prorogabili per cinque volte, a patto che il ricorso a questa tipologia -come spiegato nella “Guida al Jobs Act” curata dalla redazione di giuslavoristi di Wikilabour (wikilabour.it)- non oltrepassasse “il tetto massimo del 20% dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al primo gennaio dell’anno di assunzione”. Una liberalizzazione forte tenuta a freno da soglie deboli.
Prima del “Jobs Act”, infatti, se un datore di lavoro non avesse rispettato la condizione del tetto del 20% avrebbe rischiato di veder automaticamente “convertito” quel rapporto di lavoro a termine in uno a tempo indeterminato. Una punizione a tutela del lavoratore. Ci ha pensato il decreto 81/2015 -uno degli otto collegati alla “legge delega”- a ridurre quelle pene in una mera sanzione amministrativa e ad escludere “la trasformazione dei contratti interessati in contratti a tempo indeterminato”. “Ciò significa che se un datore di lavoro è disposto a pagare di più -ha spiegato l’avvocato Stefano Chiusolo-, può tranquillamente stipulare contratti a termine anche in violazione della soglia, nella certezza che quei contratti a termine, benché più onerosi, non saranno mai convertiti”. Da qui l’esplosione del “contratto a termine”, che in valore assoluto ha sopravanzato la quota del 2014 di 370.474 “attivazioni”. Sotto la formula “a termine” possono ricadere contratti brevissimi. Anche di un giorno. Stando alla nota più aggiornata del Sistema informativo statistico delle comunicazioni obbligatorie (SISCO) presso il ministero del Lavoro, quella relativa al terzo trimestre 2016, a fronte di 2.322.957 rapporti di lavoro cessati, poco meno di 340mila erano stati rapporti “con durata compresa tra 1 e 3 giorni”. Oltre 252mila erano di “un giorno”. Significa che per 100 relazioni di lavoro terminate, quasi l’11% era durata (almeno sulla carta) solo 24 ore.
Piergiovanni Alleva, professore ordinario di Diritto del lavoro presso la Facoltà di Economia dell’Università Politecnica delle Marche e avvocato del lavoro, usa due parole per descrivere lo stato di salute del mercato del lavoro italiano, a due anni e mezzo dal “Jobs Act”: “super precarizzazione”. Non guarda solo all’incontrastata incidenza del contratto a termine o all’indebolimento delle tutele degli assunti a tempo indeterminato, al tasso di disoccupazione complessivo (11,9% secondo l’Istat) e tra i giovani tra i 15 e i 24 anni (40,7%). Davanti a sé ha la “grande invenzione” dei voucher, i buoni lavoro nati nel 2003 per regolare le attività lavorative di tipo accessorio e di natura occasionale ed entrati in funzione nel 2008. Quell’anno i buoni venduti furono mezzo milione. Nel 2015, 115 milioni. E al primo semestre 2016 la tendenza è rimasta invariata: 70 milioni, 56 milioni dei quali venduti da tabaccai. Giudicando ammissibile il quesito referendario che chiedeva l’abrogazione dei tre articoli sul “lavoro accessorio” del decreto legislativo 81/2015 (uno dei cuori del “Jobs Act”), e sul quale ci saremmo dovuti esprimere il 28 maggio -fino all’intervento in extremis del Governo-, i giudici della Corte costituzionale segnalarono una “evoluzione dell’istituto” che avrebbe trasceso i caratteri di occasionalità divenendo regola.
I “buoni” sono “esplosi” mentre i contratti a tempo indeterminato -gli unici strumenti che il “Jobs Act” avrebbe dovuto premiare, stando agli annunci dei promotori- non hanno già più fiato. Il confronto dei “nuovi” rapporti attivati e delle “trasformazioni” (da “tempo determinato” a “indeterminato”) nell’ultimo triennio -la fonte è il report dell’Osservatorio sul precariato dell’INPS di fine 2016- è impietoso. Nel 2014 -sommando attivazioni e trasformazioni- erano stati 1,6 milioni. Un anno dopo, nel 2015, ben 2,6, un milione in più. Al terzo passaggio, nel 2016, si è tornati al punto “pre Jobs Act”: 1,6 milioni. La ragione per cui questa bolla si è sgonfiata va cercata nella riduzione degli incentivi -sotto forma di esonero contributivo- che la legge di Stabilità 2015 aveva riservato al datore di lavoro che avesse fatto ricorso al “nuovo” contratto a tempo indeterminato (o trasformato contratti a termine). Per le imprese tutto ciò ha significato tre anni di esonero dal versamento dei contributi previdenziali fino a un tetto massimo annuale di 8.060 euro. Moltiplicati per i contratti fanno almeno 20 miliardi di euro. Un invito che hanno raccolto in tanti: “Nel 2015 -i conti sono dell’Inps- 734mila imprese hanno attivato rapporti di lavoro a tempo indeterminato; di esse 575mila hanno beneficiato dell’esonero”. Quello è stato l’anno della crescita esponenziale delle assunzioni con contratto a tempo indeterminato: l’alterazione (apparentemente positiva) determinata dal contributo è sancita poi dal fatto che ogni 100 contratti sottoscritti due anni fa, 53 avevano beneficiato dell’esonero. Dopodiché, quando gli incentivi sono calati (nella legge di Stabilità 2016, l’abbattimento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro sono scesi al 40% per un biennio, con limite annuo di 3.250 euro), ci si è ritrovati con numeri non troppo diversi dal 2014 ma con tutele contrattuali modulate al ribasso e un enorme rischio beffa. L’“esonero”, infatti, non spettava a tutti. E per evitare che una sanzione si trasformasse in un premio andavano effettuati controlli. Ma il paradosso è che lo Stato si è voltato dall’altra parte. Un atteggiamento che, a metà febbraio 2017, la Corte dei conti ha biasimato nell’ambito della “Relazione sul risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria dell’Inps”. Le attività di verifica da parte dell’Inps -hanno scritto i magistrati contabili- sono partite tardi, soltanto a partire dal mese di luglio 2016. Con la conseguenza che l’entità degli sgravi indebiti, cioè non dovuti, relativi a tutto il 2015, non risulta “interamente quantificata”. Tradotto: non sappiamo quanti incentivi siano stati assicurati in maniera illegittima. Ci possiamo però riferire a un campione preoccupante: su 22.515 aziende controllate, ben 15.186, stando alla Corte dei Conti, sarebbero risultate fuori norma. Quasi 7 su 10.
È il tradimento del lavoro. Che riguarda anche il momento dell’uscita dal mercato: stiamo parlando, in questo caso, dei fondi pensione, a dieci anni dall’entrata in vigore del Testo unico della previdenza complementare (legge 252/2005).
Uno strumento che i gestori propongono in alternativa al Trattamento di fine rapporto (Tfr). Beppe Scienza insegna Metodi per le scelte finanziarie e previdenziali all’Università degli studi di Torino. Al tema ha dedicato diversi saggi ma per smontare la “retorica” dei fondi e dei loro rendimenti rimanda a uno studio recentissimo. Che non è suo ma è la 25esima edizione dell’“Indagine sui fondi e società di investimento a capitale variabile italiani” a cura dell’Ufficio studi di Mediobanca. La ricerca -datata dicembre 2016- ha valutato le prestazioni dei 1.003 fondi di diritto italiano, fondi pensione inclusi. Dalla fine del 2005, si legge, “il rendimento dei fondi pensione, sia per i negoziali (+39,2%) sia per gli aperti (+29,6%)”, ha effettivamente superato la rivalutazione del Tfr, che però è stata a sua volta del 26,1%. I saldi sono lontani da quanto raccontato dai gestori a inizio 2017 (“I fondi hanno reso il 44% in più”). Ma il paragone non regge. L’Ufficio studi di Mediobanca ha paragonato “l’industria dei fondi” a un “elemento distruttivo di ricchezza per l’economia del Paese”. Parla proprio di una “distruzione di valore” che, considerando la Borsa, ha bruciato in quindici anni qualcosa come 136 miliardi di euro, tre quarti circa dell’attuale “consistenza” dei fondi aperti.
In un contesto così precario -prima, durante e dopo il lavoro-, il professor Alleva, che è anche consigliere regionale per la lista “L’Altra Emilia-Romagna”, ha costruito una proposta “artigianale” che prova però a dare corpo al consumato slogan “lavorare meno per lavorare tutti”. “La riduzione d’orario porta all’aumento occupazionale quando investe la giornata e non il mero orario giornaliero -riflette-. Se si elimina una giornata intera, l’effetto occupazionale c’è. Si tratta allora di passare da cinque a quattro giorni. In Emilia-Romagna ci sono 2 milioni di lavoratori subordinati e 160mila disoccupati. Se tutti andassero a lavorare per quattro giorni ci sarebbero più di 400mila nuovi posti di lavoro, addirittura in esubero. Nessuno vuole questo, però teniamo presente che in questa Regione ci sono 750mila donne lavoratrici, di cui circa 600mila madri di famiglia. In questo caso la riduzione conta tanto, andando peraltro a riassorbire tutta la disoccupazione giovanile”.
Il nodo sono le risorse. “Ridurre di un quinto l’orario di lavoro comporta la contestuale riduzione del salario. Facciamo conto che da 1.300 euro netti al mese si passerebbe a 1.040. E qui entrano in gioco i contratti aziendali di solidarietà espansiva, un istituto che già c’è, attraverso i quali si potrebbe restituire al lavoratore fino al 60% della perdita. Il patto è che dei 1.200 euro di potere d’acquisto garantito a chi optasse per la riduzione di orario, 400 siano corrisposti con buoni di acquisto. Negli studi che ho condotto ho rilevato che le grandi organizzazioni di distribuzione, su grandi quantità di titoli rappresentativi (i buoni) acquistati all’ingrosso, fanno prezzi scontati fino al 15%. Il datore di lavoro si accollerebbe così il 60% della diminuzione salariale, ma recuperebbe sull’altro versante. Il secondo incentivo per il datore di lavoro potrebbe essere rappresentato da un salario di ingresso per i neoassunti più basso del 15%, con un esonero dei contributi della durata di tre anni. E se, come le spetterebbe, la finanza centrale sostenesse questa proposta, che so essere artigianale, perché è fatta con strumenti di finanza regionale, potremmo veramente puntare a un assorbimento quasi totale della disoccupazione. Il lavoratore ci rimetterebbe al massimo 100 euro al mese ma avrebbe una giornata libera a settimana e creerebbe così spazio per assumere”.
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