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“Non serve andare a votare”. La finzione che sta stravolgendo la democrazia

© Rizki Rama - Unsplash

Su 12 milioni di elettori in Lombardia e in Lazio non sono andati a votare in oltre sette milioni. Partiti e movimenti non interpretano le istanze di una parte significativa del corpo elettorale, osserva Alessandro Volpi, ma c’è di più. Si è persa la “necessità del voto”, ritenuta secondaria rispetto all’appartenenza alla comunità eterea dei social

Su 12 milioni di aventi diritto in Lombardia e in Lazio non sono andati a votare in oltre sette milioni. È abbastanza evidente, al di là di analisi più specifiche, che la partecipazione politica è ormai in larga misura fuori dalla narrazione pubblica. Senza banalizzare una questione complessa, destinata a chiamare in causa diversi piani di interpretazione, sembra chiaro infatti che il modello dell’artificio spettacolaristico della finzione sta stravolgendo la democrazia.

In quel modello si finge di essere cittadini, si gridano sui social network le proprie rabbie, si manifestano le proprie preferenze, si definisce il proprio perimetro soggettivo che lì si esaurisce e si ritiene compiuto. Non serve andare a votare, la “politica” si fa commentando i prodotti del consumo sociale; una simile indefessa attività fa sentire a troppi di aver compiuto il proprio dovere di cittadinanza. Per essere ancora più espliciti, la vivace appartenenza alla comunità dei social elimina ogni traccia di senso di colpa per non avere preso parte alla scelta dei propri rappresentanti. Ognuno è convinto di rappresentare sé stesso con il proprio, attivo, profilo e ritiene tale pratica la sostanza della politica, assai più “vera” della noiosa politica dei partiti, qualificati in senso lato come “il sistema”, da cui la rete sarebbe fuori.

In questa direzione gioca un ruolo rilevante la ricerca spasmodica dell’evento straordinario, fuori dall’ordinario, per coltivare l’attenzione della ormai enorme dimensione social che trasforma in genere di consumo quotidiano anche il gesto più clamorosamente anticonformista. In tale ottica si esaurisce lo spazio della protesta e persino della partecipazione reale. Discutere sui social di Sanremo, battersi per la difesa del “libero pensatore” Amadeus, o per il “rivoluzionario” Fedez, scontrarsi sulle “battaglie” di genere di Chiara Ferragni, rimpiangere la sana tradizione canora di Morandi, Ranieri e Albano finiscono per far sentire milioni di italiani partecipi di un grande dibattito “politico” che sostituisce la politica vera, peraltro solerte nell’ipotizzare censure dure o nell’immaginare nuovi martiri, divenendo in tal modo partecipe dello show, a pieno titolo, senza bisogno di altri luoghi. E così l’affluenza alle regionali crolla a percentuali risibili.

Naturalmente non è certo colpa di Sanremo ma la sua capacità di occupare tutti gli spazi della narrazione pubblica è quasi paradigmatica del processo in corso di diffusa estraneazione dalla realtà. Il palinsesto è stato costruito per contenere in sé tutto quanto; l’istituzione presidenziale, la politica estera, la Costituzione il conformismo, la tradizione, la ribellione. Tutto tradotto nel linguaggio artificiale e irreale del prodotto di consumo spettacolarizzato che finisce per cancellare i significati veri e per declinare ogni fenomeno, appunto, nella forma della finzione.

Certo esiste una responsabilità delle formazioni e dei movimenti politici di non interpretare le istanze di una parte significativa del corpo elettorale, così come pesa l’idea, diffusa, che non sia possibile un vero cambiamento delle condizioni di vita dei singoli come dei gruppi sociali, tuttavia qualsiasi proposta, oggi, per essere quantomeno ascoltata deve parlare il linguaggio dei media sociali finendo per essere inghiottita nel meccanismo sopra descritto capace di mostrarsi autosufficiente e quindi, in maniera paradossale, capace di cancellare la necessità del voto.

Lungo un siffatto percorso, inevitabilmente, il voto è sempre più caratterizzato da due elementi trainanti. Il primo è costituito dalla capacità personalistica dei leader di diventare grandi prodotti di consumo mediatico, tanto forti da rompere la barriera della rete e spostare il consenso fino alle urne, secondo la logica della “fandom”, per cui gli elettori-fan vanno a tributare il proprio omaggio al loro divo al seggio. Il secondo è individuabile nel rafforzamento di un elettorato che si reca a votare perché legato ad una catena di interessi particolari e ben visibili che hanno natura lobbistica e non sono direttamente riconducibili all’interesse generale; una selezione che favorisce e promuove i campioni delle preferenze in una dimensione quasi clanica. Non serve ripeterlo ma rappresentanza e democrazia non stanno benissimo.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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