Diritti / Intervista
Nicola Zambelli. La lotta nonviolenta di At-Tuwani
Undici anni dopo “Tomorrow’s land” il regista italiano torna a raccontare le storie dei giovani attivisti palestinesi con il documentario “Sarura”. Tra la normalizzazione dell’occupazione israeliana e nuove forme di resistenza
È un legame che dura da undici anni quello che lega il regista Nicola Zambelli al villaggio di At-Tuwani nelle colline a Sud della città palestinese di Hebron, ai margini del deserto del Negev. Dopo averci girato nel 2011 il docufilm “Tomorrow’s land”, infatti, ha deciso di tornarci per un nuovo lungometraggio prodotto dalla casa di produzione indipendente SMK Factory: “Sarura. The future is an unknown place”. I protagonisti sono gli abitanti della zona, i bambini di ieri divenuti i ragazzi e le donne di oggi che, pur sottoposti alle angherie dei coloni e dell’esercito israeliano, si inventano di tutto per rimanere sulla loro terra. È una storia di coraggio e di resistenza che sta facendo il pieno di proiezioni in Italia ed è stata trasmessa anche alla School of oriental and african studies (Soas) di Londra e in Palestina, a Gaza, a Ramallah e a Gerusalemme.
Zambelli, il suo film si apre con immagini che ricordano i Sassi di Matera con ragazzi e ragazze che dormono e mangiano all’interno di cavità nella roccia. È Sarura, il villaggio rivitalizzato dai giovani attivisti palestinesi di “Youth of Sumud” che dà il titolo anche al documentario. Ci può raccontare la storia di questa lotta che prosegue dal 2017?
NZ Ad animarla sono ragazzi e ragazze nati e cresciuti a At-Tuwani e in altri villaggi nella parte meridionale della Cisgiordania, a Sud di Hebron. La loro vita è stata contraddistinta dalla precarietà, dalle continue minacce di sgombero e dai soprusi a cui i loro genitori, pastori nella zona, hanno sempre opposto una determinata resistenza nonviolenta. Crescendo, hanno deciso di unire le loro forze e le loro intelligenze, dando vita a un collettivo molto simile a quelli che animano le nostre università. Insieme hanno deciso quindi di continuare la straordinaria esperienza di riappropriazione della terra promossa da attivisti internazionali, palestinesi e israeliani che nel 2017 avevano dato vita, rientrando nelle caverne di Sarura, a un campo di pace e di speranza. Il gruppo “Youth of Sumud” lo ha tenuto vivo, impedendo la connessione tra le due colonie israeliane che lo circondavano e portando avanti nel frattempo altre attività di resistenza contro l’occupazione.
“Gli esseri umani sono esseri narranti: la narrazione è utile per definire sé stessi, obbiettivi e strategie e orientare l’azione di ciascuno”
I giovani di “Youth of Sumud” hanno deciso di far tornare a vivere il villaggio di Sarura, abbandonato dagli anni Novanta, nonostante le difficoltà che comporta vivere in quelle condizioni. Fin dall’inizio hanno deciso di adottare solo pratiche nonviolente. Di fronte a soprusi e ingiustizie che proseguono, la nonviolenza è ancora un’opzione concreta?
NZ È una scelta tattica. Mi spiego meglio: se i palestinesi dovessero ricorrere alla violenza, alla lotta armata, la risposta di Israele in questa area avrebbe effetti devastanti. La ritorsione sarebbe terribile. Basti pensare a uno dei protagonisti del film, Hafez, che per il solo fatto di essersi difeso da un’aggressione ha subito un pestaggio e un arresto con l’accusa di omicidio. Ci sono voluti migliaia di shekel per pagare la cauzione e riportarlo a casa. Secondo me, poi, questa forma di lotta è l’unica a rendere manifesta la possibilità concreta che i due popoli possano vivere e mobilitarsi insieme per una pace futura. Non tutto è perduto, no? La fiaccola della speranza, rappresentata simbolicamente dalle candele che più volte compaiono nel film, rimane viva e illumina il buio.
“Sarura” è il secondo docufilm che realizza ad At-Tuwani. Il primo è uscito 11 anni fa. Come è stato tornarci? Cosa l’ha spinta a farlo?
NZ Molto banalmente un invito: sia “Tomorrow’s Land” sia “Sarura”, infatti, nascono dalla chiamata di realtà della società civile palestinese per andare lì e testimoniare quello che sta accadendo. In entrambi i casi i viaggi si sono intrecciati con mie personali aspirazioni di vita, di progetti, di lavoro e ne sono uscito cambiato entrambe le volte. E spero che questo film possa cambiare anche altri. La lotta e la determinazione dei palestinesi ci fanno riflettere anche sulla nostra vita: ogni volta che ci si abbatte o si prova un senso di sconfitta, si dovrebbe pensare all’esperienza degli abitanti del villaggio di At-Tuwani o alla determinazione dei ragazzi di “Youth of Sumud” che hanno scelto di restare e di continuare a lottare. Nonostante tutto.
In questi undici anni quali elementi sono rimasti costanti?
NZ A non essere cambiato è il regime di apartheid che si vive quotidianamente nei Territori palestinesi occupati. Così come è rimasta identica anche l’indifferenza generalizzata del popolo israeliano, cieco di fronte alle sofferenze dei vicini palestinesi. A questo esito contribuisce anche il tentativo di normalizzare l’occupazione: negli ultimi anni sono stati diversi gli sforzi del governo di Tel Aviv di promuovere il turismo, offrendo ai visitatori una visione più accogliente e democratica del Paese. All’aeroporto Ben Gurion, ad esempio, ci sono degli steward, non più dei soldati a fare i controlli così come i check point sono sempre più simili a caselli autostradali più che a posti di blocco dell’esercito. L’obiettivo non scritto è rendere sempre più digeribile l’occupazione israeliana agli occhi del mondo.
Cosa è cambiato invece?
NZ Sicuramente è emersa una generazione palestinese non solo più determinata e testarda ma anche dotata di strumenti tecnologici più avanzati e delle capacità di utilizzarli. Se fino a una decina di anni fa i pastori della zona di At-Tuwani invitavano attivisti internazionali per filmare e denunciare l’oppressione quotidiana, oggi sono i ragazzi e le ragazze dei villaggi che con i loro smartphone raccontano direttamente al mondo quello che succede nella loro terra.
A undici anni di distanza si vede che la colonia in costruzione di fronte a At-Tuwani è diventata realtà. Che ha voluto dire per la comunità palestinese il suo insediamento?
NZ Si è assistito a un peggioramento delle condizioni di vita per gli abitanti palestinesi dei villaggi che ha spinto alcuni ad abbandonare la propria comunità, le attività tradizionali e cercare fortuna e lavoro in città. Quando una colonia israeliana si insedia in un territorio, furti, violenze e prepotenze diventano all’ordine del giorno in un clima di impunità garantito dall’esercito israeliano, uno dei più forti al mondo. Coabitare in un territorio con una colonia, insomma, significa vedere compromesso il proprio futuro. E ciò è evidente quando, tanto per fare un esempio, al colono viene accordato il permesso di avviare un allevamento intensivo mentre al palestinese non viene concesso neppure di innalzare una tenda.
Dal 21 novembre è possibile vedere il documentario “Sarura” in streaming sulla piattaforma Open Ddb
Oggi come undici anni fa è andato in Palestina con la telecamera. Oggi come allora qual è il ruolo dei media? Possono essere davvero degli strumenti utili a cambiare il paradigma dominante?
NZ Gli esseri umani sono esseri narranti: la narrazione è utile per definire sé stessi, obbiettivi e strategie e orientare l’azione di ciascuno. Quindi sì, sono convinto che questi strumenti servano, servano per condizionare l’azione, dando un senso al nostro vivere e una direzione verso cui muoversi. Filmare, soprattutto per i ragazzi e le ragazze palestinesi, significa anche rivendicare il diritto alla storia di quello che sta accadendo: se posso esprimermi, posso definire la casa comune e ho gli strumenti per dire cosa è giusto e cosa non lo è.
In questo contesto di progressiva presa di coscienza dei palestinesi e, in particolare, dei più giovani tra loro, hanno ancora un ruolo gli attivisti internazionali?
NZ Sì, ed è fondamentale direi. Le lotte non violente hanno bisogno della partecipazione di quanti più attori possibili, pena la loro inutilità. Gli attivisti internazionali possono essere testimoni di quanto succede in Palestina, diventando semi viventi di un discorso che guarda al futuro. Per capirne l’importanza basti pensare alla stessa esperienza di Sarura: siamo qui a parlarne perché alcuni attivisti ci hanno chiamato. E noi con i nostri mezzi e le nostre abilità, stiamo cercando di riverberare questa storia il più possibile. Dobbiamo essere dei megafoni delle lotte e delle aspirazioni alla libertà del popolo palestinese.
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