Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Diritti / Intervista

Gli ex soldati israeliani che vogliono rompere il silenzio sull’occupazione

Nadav Wael, 36 anni, è vicedirettore di Breaking the silence © Nadav Wael

Un gruppo di ex militari in servizio in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza ha fondato la Ong “Breaking the silence”. Raccoglie testimonianze, organizza tour e letture per denunciare le violenze. Intervista al vicedirettore Nadav Wael

Tratto da Altreconomia 252 — Ottobre 2022

C’è una resistenza all’occupazione israeliana dei territori palestinesi che non è palestinese, ma interna, portata avanti cioè da israeliani, che hanno scelto di chiamarsi Breaking the silence, rompere il silenzio. Sanno meglio di chiunque altro che cosa sia l’occupazione, perché hanno prestato servizio, e in alcuni casi continuano a farlo, nell’Idf, l’esercito israeliano. 

“È iniziato tutto nel 2004 quando un plotone di 60 soldati in servizio a Hebron, l’unica città palestinese ad avere un insediamento (di coloni) al suo interno, ha voluto colmare il divario di informazione che c’era -racconta Nadav Wael, 36 anni, oggi vicedirettore di Breaking the silence (Bts), ieri cecchino-. Nonostante l’abbondanza di notizie, infatti, le loro famiglie e amici non sapevano davvero quello che facevano durante la seconda Intifada in Cisgiordania. Affittarono una piccola galleria a Tel Aviv, appesero delle foto e ruppero il silenzio, raccontando. Erano così ingenui da pensare che quando gli israeliani avrebbero visto cos’era l’occupazione avrebbero opposto resistenza”. 

Ancora oggi Bts raccoglie e pubblica testimonianze di soldati che operano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, organizza tour, letture e incontri. “Crediamo nell’educazione politica: gli israeliani e gli stranieri devono capire cos’è davvero l’occupazione -continua Nadav- vogliamo che ancora più persone resistano e che l’occupazione finisca”. Nadav è di Tel Aviv e insegna Storia alle superiori. Viene da una famiglia di sinistra, in cui tutti, dal nonno ai fratelli, sono stati nell’esercito, anche con ruoli di comando. “Non mi sono nemmeno posto la questione  -racconta- e sono entrato in una delle unità più combattive delle forze speciali. Eravamo cecchini in Cisgiordania durante la seconda Intifada. A scuola ci insegnano che dobbiamo proteggerci, che siamo circondati da nemici, che i palestinesi ci odiano; poi ti addestri per anni e alla fine vai in Cisgiordania. È stata la mia prima operazione a portarmi a rompere il silenzio. Quel nemico di cui mi avevano sempre parlato non c’era davanti a me: c’erano civili, palestinesi”.

È ancora difficile la vita per un israeliano di Bts?
NW Nel 2016 il Governo Netanyahu attaccò le organizzazioni dei diritti umani, tra cui la nostra: entrarono negli uffici, la polizia chiuse i nostri tour, fecero leggi contro di noi, ci furono attacchi dei media e misero quattro spie nell’organizzazione, raccogliendo informazioni su di noi, che poi pubblicarono. Oggi quando dico che lavoro in Bts le persone non mi chiedono di che cosa si tratti, tutti ormai lo sanno, e saperlo significa avere un’opinione sull’occupazione, pro o contro. I costanti attacchi dei governi israeliani -non importa chi sia il primo ministro- hanno fatto sì che i soldati vengano da noi per una questione politica. Io volevo raccontare quello che ho fatto e poi ho pensato all’occupazione, oggi invece vengono perché vogliono combatterla. 

Sono tutti veterani?
NW Molti sono veterani, ma circa un terzo dei testimoni dell’operazione “Protective edge” del 2014 a Gaza, erano in servizio. Ciò significa che avevano tre-sei ore di riposo, durante le quali ci chiamavano e dicevano: “Devo testimoniare. Non sapete cosa sta succedendo”. E poi tornavano sul campo.   

Nadav Wael ha prestato servizio nelle Forze di sicurezza israeliane come cecchino. Oggi vive a Tel Aviv e lavora come insegnante © Nadav Wael

Quali sono i vostri principali obiettivi?
NW Vogliamo che l’occupazione termini, che nessun palestinese vi sia più soggetto, che nessun soldato gli debba dare un permesso per guidare dal punto A al punto B, per importare o per muoversi. Cosa succederà dopo, uno o due Stati, non mi importa. E prima di questo voglio che Israele si guardi allo specchio e dica: questo è ciò che stiamo facendo. Perché uno dei problemi principali dell’occupazione è che nessuno ne parla. Ci saranno le elezioni tra poco (primo novembre 2022, ndr) e nessuno ne sta discutendo. È folle: solo negli ultimi 14 giorni (tra fine agosto e inizio settembre, ndr) abbiamo ucciso cinque palestinesi e sei soldati sono stati feriti e sono cose che succedono tutti i giorni. Io stesso non ne avevo mai parlato con i miei amici di Jaffa: ho pensato per la prima volta che erano palestinesi dopo essere entrato in Bts. Quando gliel’ho detto, mi hanno risposto: “Certo, siamo quelli delle famiglie che se ne sono andate nel 1948” e hanno un sacco di storie da raccontare. Per noi questa non è una normale conversazione. 

Qual è la storia che ti ha colpito di più?
NW Sono molte ma direi che occupandomi di educazione ed essendo padre, ce n’è una in particolare. Quando ero in servizio, ho fatto molte irruzioni nelle case: come cecchini prendevamo abitazioni private palestinesi e le trasformavamo in postazioni militari. Prendevamo solo quelle su cui avevamo informazioni dai Servizi segreti, che i palestinesi che ci abitavano non erano coinvolti in formazioni militari, erano innocenti. Arrivavamo molto velocemente nel mezzo della notte, buttavamo giù la porta con un equipaggiamento speciale, la risigillavamo, tiravamo fuori tutti dal letto, li bendavamo e ammanettavamo, e piazzavamo il nostro fucile alla finestra di una stanza. Per noi la casa è un buon rifugio, perché la famiglia è vicino a noi, ed è un ottimo camuffamento, perché arrivavamo così veloci di notte che nessuno se ne accorgeva. Due anni fa abbiamo pubblicato una testimonianza su un’irruzione, con Physicians for human rights (Phr): noi abbiamo intervistato i soldati, loro i palestinesi delle case, madri e bambini. È stata la prima volta in cui ho capito che cosa succedeva quando chiudevo la porta e me ne andavo.

Il 2014 è stato l’anno dell’operazione militare israeliana “Protective edge” (in italiano “Margine di protezione”) nella Striscia di Gaza, iniziata l’8 luglio e conclusa il 26 agosto. Molti degli attuali membri di Breaking the silence hanno preso parte all’operazione

Sapevo già che erano cose orribili quelle che avevo fatto, ma improvvisamente è arrivato un report degli psicologi che parlava dell’aumento della violenza nei bambini, del fatto che facevano pipì a letto da grandi, che dormivano solo con i genitori o la luce accesa e avevano problemi a scuola. E dall’altro lato, padri che hanno perso il loro posto all’interno della famiglia: di solito bendiamo e ammanettiamo o picchiamo il padre. Sa quante case ho invaso? Due o tre alla settimana. Se penso, da padre, a 12 soldati che nel cuore della notte mi tolgono a forza dal mio luogo più privato, l’unica cosa che voglio, è difendere i miei figli. Nel 2006, dopo tutte le esercitazioni, una notte facciamo irruzione, butto giù la prima porta, entriamo nelle camere, ce n’è uno nel letto, lo prendo, lo sollevo per portarlo nella stanza dove raduniamo tutti, ma: è leggero. Solo allora ho visto che era un bambino, di 10-11 anni, ha aperto gli occhi ed era così spaventato. L’ho portato dal resto della famiglia e ho continuato. Ma quando sono tornato indietro dall’operazione mi sono chiesto: “Cos’ho appena fatto?”. Non ci fu combattimento, nel 99% dei casi non c’è, è solo per far sentire le persone oppresse, è il modo in cui le controlli, con l’intimidazione. Quando ci fu la pubblicazione del report, 12 anni dopo aver lasciato l’esercito, ho davvero capito che cosa avevo fatto. Siamo abituati a parlare delle operazioni, ma improvvisamente vedi la cosa da un altro punto di vista, quello palestinese, e cambia tutto, perché è qualcosa che io non ho nella mia testa. Sei anni fa sono diventato padre e da allora guardo a tutto in maniera differente.

A Hebron, città della Cisgiordania 30 chilometri a Sud di Gerusalemme, una donna attende di attraversare il check point dalla parte palestinese © shutterstock.com/g/Worldfacesphotos

Che cosa pensi del fatto che le Forze di sicurezza israeliane alla fine ha ammesso la colpevolezza nella morte della giornalista Shireen Abu Akleh?
NW Dopo i report della Cnn, del Guardian e anche le prime dichiarazioni dell’Idf, era abbastanza chiaro che probabilmente eravamo stati noi. Come membro di un team di cecchini e avendo visto i report, posso dire che i proiettili che hanno colpito l’albero sopra la giornalista erano quattro, un piccolo grappolo, e da 100 metri, con un M4, significa che hai mirato per colpire. Immagino che il soldato non abbia sparato per uccidere Shireen Abu Akleh: la maggior parte degli israeliani non sapeva chi fosse, noi del mondo dei diritti umani la conoscevamo, ma l’israeliano o il soldato comune no. Quindi non credo fosse lei l’obiettivo. Ma certo, quando spari da quella distanza e vuoi colpire qualcuno, le regole di ingaggio sono molto specifiche, ma alla fine è tutto soggettivo: se mi sento minacciato posso sparare per uccidere. In questo caso Israele ha mostrato che cosa è in grado di fare per mantenere l’occupazione: abbiamo ucciso una giornalista straniera e nelle ore successive non c’è stato nessuno a Gerusalemme che ha detto: “Ok, smettiamola”. Anzi ore dopo hanno cominciato a dire: “Ah, ma i palestinesi non ci danno il proiettile…”.

Questa è la copertura che vediamo ogni volta che si uccidono dei palestinesi. Se siamo davvero l’unica democrazia del Medioriente, come ci diciamo, allora una democrazia verifica, non copre, e invece ogni volta viene aperta un’indagine, che dura anni, i soldati vengono congedati, diventano civili e il caso passa al civile e ci vogliono altri anni. Io non credo che il soldato tenga questo a mente, ma il comando sì: sanno che l’indagine durerà anni e che copriranno tutto. Questo caso mostra esattamente ciò. Abbiamo fatto un errore in combattimento, so cosa vuol dire, se vedi qualcosa che ti fa paura dovresti sparare, ma verifica, controlla, prima di dire che non siamo stati noi. 

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.


© 2024 Altra Economia soc. coop. impresa sociale Tutti i diritti riservati