Finanza / Approfondimento
Nei prossimi 10 anni i paradisi fiscali sottrarranno cinquemila miliardi di dollari a livello globale
Una perdita del valore pari a quanto si spende in un anno per la sanità pubblica. Il doppio di quanto bruciato nella Grande crisi del 2007-2009. È il pesante conto fatto da Tax justice network, rete indipendente che da vent’anni esatti si occupa di equità fiscale, nel presentare il suo rapporto annuale sullo stato della giustizia fiscale
Nei prossimi dieci anni i paradisi fiscali utilizzati da multinazionali e individui facoltosi per nascondere le proprie ricchezze costeranno ai Paesi di tutto il mondo quasi 5mila miliardi di dollari. Una perdita del valore pari a quanto si spende in un anno per la sanità pubblica. Il doppio di quanto bruciato nella Grande crisi del 2007-2009. È molto pesante il conto fatto da Tax justice network (Tjn), rete indipendente che da vent’anni esatti si occupa di equità fiscale, nel presentare il suo rapporto annuale sullo stato della giustizia fiscale. Gli Stati di tutto il mondo, infatti, perdono in media 472 miliardi di dollari ogni anno, di cui 301 miliardi per mano degli artifici fiscali delle multinazionali e 171 miliardi in capo a singoli miliardari.
Efficaci misure di contrasto a fronte di queste “perdite astronomiche” non sono più rinviabili, spiegano i membri della rete, che esortano i Paesi delle Nazioni Unite a votare il prossimo inverno a favore dell’avvio dei negoziati per raggiungere finalmente una convenzione fiscale dell’Onu dinanzi all’Assemblea generale.
“Alla fine di quest’anno i Paesi dovranno scegliere. Rinunciare al nostro futuro ora, mantenendo questa rotta, o democratizzare le regole fiscali globali in modo da poter conservare il denaro pubblico di cui abbiamo bisogno per le sfide future”, ha dichiarato Alex Cobham, direttore generale di Tjn.
L’ingiustizia colpisce maggiormente i Paese a basso reddito, storicamente esclusi dagli accordi fiscali internazionali e con nessuna voce in capitolo. Se è vero che sono gli Stati più “ricchi” a subire perdite maggiori (pari a ben 426 miliardi di dollari), queste arrivano a coprire appena il 9% dei loro bilanci pubblici in materia di sanità. Al contrario, con i 46 miliardi sottratti ai restanti Paesi si arriverebbe a finanziare il 56% della loro spesa sanitaria. Un ritmo insostenibile. Secondo Tax justice network togliere la leadership negoziale all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) -liquidata come il “club dei Paesi ricchi”- e affidarla alle Nazioni Unite, permetterebbe di affrancare migliaia di miliardi dal giogo dei paradisi fiscali per metterli a disposizione degli obiettivi di sviluppo sostenibile.
I ricercatori del network mettono in fila i fallimenti dell’Ocse in campo fiscale. Le iniziative partite nel 2013 per riformare l’architettura fiscale e ridurre le perdite dovute all’evasione -come il processo Base erosion and profit shifting (Beps)- non hanno disturbato il manovratore, fermandosi allo stadio delle bozze con scarsissima probabilità di implementazione da parte dei membri del club. Se il processo resta in mano all’Ocse non si faranno cioè passi in avanti.
Il fallimento del processo Ocse per frenare l’abuso fiscale globale è in gran parte attribuito all’incapacità dell’Organizzazione di concordare soluzioni politiche senza che i Paesi membri, che ospitano la maggior parte delle sedi delle multinazionali e fungono da paradisi fiscali, “annacquino le politiche fino a renderle ridondanti” (le parole di Tjn). Nell’Organizzazione, infatti, hanno posto Paesi responsabili del 77% dell’evasione, tra i quali spiccano Irlanda, Olanda, Lussemburgo e Svizzera.
È a livello di Nazioni Unite che occorre agire. “Lo scorso anno i Paesi hanno deciso all’unanimità di aprire le porte ai negoziati per una convenzione fiscale dell’Onu che porterebbe la leadership fiscale in seno alle Nazioni Unite. La storica risoluzione è stata adottata nonostante i tentativi aggressivi senza precedenti dell’Ocse di impedire che la risoluzione venisse sottoposta all’Assemblea generale. Il Segretario generale presenterà a settembre un rapporto sulle possibili opzioni per una convenzione fiscale che verrà poi discusso dall’Assemblea. Si prevede che entro la fine dell’anno i Paesi voteranno una risoluzione dell’Assemblea sull’opportunità di avviare formalmente i negoziati per una convenzione”. Proposte solide e non “diluite” sono già stata discusse e licenziate dal Gruppo di alto livello preposto (UN High-Level Panel on International Financial Accountability, Transparency and Integrity). Tanto che da Europa, Africa e America Latina sono già arrivati segnali positivi e di sostegno.
Il Parlamento europeo ha appoggiato i negoziati per la convenzione fiscale e numerosi Paesi africani hanno ricoperto un ruolo di guida nel processo: “La risoluzione adottata l’anno scorso dalle Nazioni Unite è stata proposta dall’Africa Group -ricorda Tax justice network- e l’influente Commissione dell’Unione Africana ha riaffermato questo impegno”. E così da America Latina e Caraibi: la costruzione del consenso è ben avviata.
L’ultima prova di quanto sia totalmente antidemocratico il “gioco fiscale” è stata raccontata in queste settimane dal Financial Times, che ha dato conto del fatto che l’Ocse sarebbe intervenuta per dissuadere l’Australia dall’adottare misure innovative per frenare gli abusi fiscale, e ha anche confermato che il Fondo monetario internazionale starebbe strumentalizzando le rinegoziazioni del debito per costringere i Paesi ad adottare le regole fiscali della stessa Ocse. Le quali, a detta dello stesso Fmi, renderanno più difficile la riscossione delle imposte per i Paesi sotto stress. Un paradosso.
“Siamo alla vigilia di una rivoluzione fiscale democratica globale che potrebbe recuperare letteralmente migliaia di miliardi di dollari di risorse pubbliche -ha concluso Cobham-. Per sessant’anni le regole fiscali globali sono state decise a porte chiuse dall’Ocse, con una manciata di Paesi e di lobbisti che ha piegato la politica fiscale per soddisfare gli interessi di aziende multinazionali e miliardari. Ora abbiamo una possibilità concreta di portare questo processo alla luce del sole e della democrazia all’Onu, dove tutti i Paesi avranno finalmente voce in capitolo e dove i governi dovranno finalmente rispondere ai loro cittadini”.
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