Diritti / Intervista
Nadeesha Uyangoda. L’unica persona nera nella stanza
Partendo dal racconto del proprio vissuto, la giornalista di origine srilankese Nadeesha Uyangoda disvela le dinamiche razziste ancora presenti nella società italiana
“L’unica persona nera nella stanza” (66thand2nd Editore) non è solo il titolo del primo libro della giornalista ventottenne Nadeesha Uyangoda ma rappresenta nella sua concretezza anche il senso di isolamento vissuto da tanti italiani di seconda generazione, nati o cresciuti in Italia da genitori stranieri. Un destino condiviso dalla stessa autrice che, nata in Sri Lanka, all’età di sei anni viene messa in aereo per raggiungere i genitori, già emigrati nella Penisola. Proprio da questo episodio prende il via il libro, in cui il racconto di alcuni episodi significativi della sua vita offre lo spunto all’autrice per analizzare la società italiana, disvelando le dinamiche razziste che ancora la caratterizzano sotto molti aspetti. E che, se all’apparenza percepite come innocue dalla maggioranza bianca della popolazione, sono vissute dai figli di immigrati e immigrate in Italia come offensive e avvisaglie di un diffuso sentire comune xenofobo.
“Nel mio passaporto che sembrava non superare mai i controlli d’ingresso in aeroporto, nelle ispezioni ‘casuali’ oltre le casse automatiche del supermercato, nel ‘tu’ dell’impiegato di banca che ritornava al lei col cliente successivo”. In questi momenti, come in tanti altri episodi narrati nel corso del libro, le sue origini srilankesi e la sua pelle nera sono diventate un aspetto determinante, anzi discriminante, nella sua vita. Come e quando ha preso coscienza di questa linea del colore che attraversa la società italiana? C’è un momento particolare?
NU Penso che l’episodio che più mi ha segnato, da questo punto di vista, sia stato quello dell’autista del pullman. Come racconto anche nel libro, alla mia vista si è lasciato andare in una serie di insulti che volevano rimarcare una distanza abissale tra lui e me. Tra un “noi”, in cui io, con la mia pelle e con le mie origini, non avrei mai potuto rientrare, e un “loro”. In quel momento mi sono vista con gli occhi della componente dominante nella società, quella degli italiani bianchi, e mi sono resa conto che il colore nero della mia pelle e i miei tratti somatici, diversi, per loro avevano una rilevanza a me sconosciuta.
Possiamo definire il suo una sorta di romanzo di formazione, in cui lei progressivamente prende coscienza del background migratorio della sua famiglia e mostra al lettore come episodi, apparentemente banali o questioni a prima vista meramente linguistiche, siano vissute come ferite da una persona di origine straniera. Questa presa di coscienza è un processo naturale, comune alle seconde generazioni?
NU Non penso e non voglio pensare che sia un processo che accomuni tutti, perché la verà libertà è non pensare alla propria identità: si dovrebbe solo essere sé stessi. Non a caso le persone di pelle bianca, soprattutto se uomini eterosessuali, non hanno e non sentono il bisogno di pensare a che cosa sono, perché la loro identità è lo standard, la normalità. Invece le persone che rientrano in gruppi marginalizzati per il sesso, il genere, l’etnia sono spesso costrette a riflettere sulla propria identità perché non hanno così facilmente la libertà di essere sé stesse.
“Le persone di pelle bianca, soprattutto se uomini eterosessuali, non hanno e non sentono il bisogno di pensare a che cosa sono, perché la loro identità è lo standard, la normalità”
Per lei questa presa di coscienza della sua identità, come è avvenuta?
NU È stato l’esito di una serie di fattori: da un lato, è stato un processo naturale di autoriflessione; dall’altro, il risultato delle percezioni di altri nei miei confronti. Un peso lo ha avuto anche la frequentazione della comunità srilankese. Mi ha aiutato a riflettere sul background migratorio mio e della mia famiglia e sulla mia identità. Tanto italiana quanto srilankese.
A chi si trova dall’altro versante, quello bianco, diciamo per sintetizzare, cosa consiglia sul come approcciarsi alle minoranze, senza far pesare la sua condizione intrinseca di privilegio?
NU La risposta è ascoltare. Spesso si ha voglia di fare domande a persone di minoranza etnica che possono essere percepite, quando scadono nella morbosità, come microaggressioni. Per evitarle bisogna capire la condizione di chi appartiene a una minoranza, ascoltarne le storie e le esperienze e capirne così il punto di vista. Solo dando spazio e ascoltando, si può fare buon uso del privilegio che qualcuno di noi ha.
Lei è cresciuta in una piccola cittadina, ma ha studiato a Milano. Un giovane di origine straniera sente molto la differenza tra città e provincia?
NU Sia quando ero piccola sia oggi, solitamente, la differenza tra il vivere in città e in periferia per uno straniero è il tendenziale isolamento “estetico” con cui ci si trova a convivere. In un paese ci si sente spesso “l’unica persona nera nella stanza”, mentre in città la presenza di grosse comunità straniere permette alle persone con origini non italiane di non essere soli.
Nel libro, data anche la sua giovane età, la scuola torna spesso. A volte sotto una luce positiva, a volte sotto una negativa come i suoi due compagni di banco sfacciatamente razzisti o il professore che ripete con insistenza la “parola con la n” durante le sue lezioni. Secondo la sua esperienza la scuola italiana riesce a trasmettere l’idea di una società inclusiva oppure rischia solo di esacerbare i pregiudizi etnici?
NU La scuola ha delle difficoltà a creare ambienti effettivamente multiculturali e inclusivi. Questo a causa anche di una narrazione mediatica che, troppo spesso, individua nella ricchezza culturale e linguistica un ostacolo, quasi insuperabile, alla didattica. Pensiamo ai titoli allarmistici dei giornali sulla composizione delle classi all’inizio di ogni anno. E poi il grado di inclusione dipende spesso anche dal tipo di scuola di cui parliamo: ci sono licei in cui la presenza dei neri, di persone appartenenti a minoranze etniche, è disincentivata solo per motivi economici o di prestigio.
“Una legge sulla cittadinanza ancora imperniata sullo Ius sanguinis non fa che peggiorare la situazione, avvallando l’idea che non ci possano essere neri italiani”
Tra i temi che emergono con più forza nel libro c’è quello della cittadinanza. Per ottenerla, scrive, gli stranieri se la devono “meritare”, devono “essere perfetti”. Per lei avere o non avere la cittadinanza ha mai fatto la differenza? È urgente una riforma della legge sulla cittadinanza?
NU Una buona proposta di legge è quella del 2017, in cui la cittadinanza la si può ottenere “con un atto di volontà” o se si è nati qui oppure se si ha frequentato la scuola. Ora, invece, un bambino, non avendo la cittadinanza, rischia di crescere con la percezione di non essere italiano. Con un conflitto identitario tra ciò che si percepisce di essere e ciò che si è. E una legge sulla cittadinanza ancora imperniata sullo Ius sanguinis non fa che peggiorare la situazione, avvallando l’idea che non ci possano essere neri italiani perché con la cittadinanza si trasmettono anche tratti somatici. E non è una cosa banale perché il mancato riconoscimento della cittadinanza può avere effetti molto concreti come le difficoltà burocratiche, fino al diniego della possibilità di imbarcarsi su un aereo, a cui una persona senza passaporto italiano, come me quando ero a scuola, può andare incontro in aeroporto.
Intersezionalità è un termine che ricorre nel suo libro. Essere donna è già motivo di discriminazione, essere donna e straniera lo è ancora di più. In che senso?
NU Ricordo un episodio avvenuto proprio poco tempo fa intorno a Lecco, dove tre ragazze sono state aggredite mentre passeggiavano. È stato raccontato solo come aggressione razzista ma quello che è successo è anche una violenza contro le donne. I due piani si intersecano spesso quando si parla di aggressioni e molestie nei confronti di donne di origine straniera. E questo fatto non riesce a trovare lo spazio sufficiente nel movimento femminista italiano che, per quanto impegnato a ribadire alcune delle storiche rivendicazioni delle femministe, ha una certa reticenza a farsi carico di istanze nuove, espressioni di una società in cambiamento.
Il suo libro, la serie tv “Zero”, il podcast “Sulla razza”, la blackface esclusa dalle programmazioni Rai: possiamo considerarle avvisaglie di un’attitudine che cambia in Italia nei confronti delle seconde generazioni e in generale delle questioni razziali?
NU È una tendenza che si è accentuata con l’uccisione in diretta di George Floyd. Spero proprio che questo risveglio della sensibilità verso le minoranze non sia solo un riflesso di quanto succede negli Stati Uniti ma sia da sprone a indagare il passato italiano e a ritrovare le tracce più o meno visibili che anche l’esperienza coloniale ha lasciato in questo Paese.
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