Ambiente / Intervista
Mauro Varotto. Geografia delle montagne di mezzo
Antropizzate da secoli, sono caratterizzate da una natura in continuo divenire. Un libro indaga il ritorno ai loro spazi, tra colonialismo gastronomico ed elogio del selvatico
“Quando si parla di media montagna si pensa subito al range altimetrico in cui si colloca, che per la letteratura scientifica va dai 600 ai 1.500 metri di quota. Considerare solo questo aspetto, in realtà, non è sufficiente: l’obiettivo non è lavorare sull’altimetria ma sulla ‘mediazione’, ovvero sull’interazione tra presenza umana e ambiente di montagna”, spiega il professor Mauro Varotto. Docente di Geografia all’Università degli Studi di Padova, dal 2008 coordina il Gruppo Terre Alte del Comitato scientifico del Club alpino italiano, e spiega con queste parole la genesi del libro “Montagne di mezzo. Una nuova geografia” (Einaudi, 2020).
Professor Varotto, può darci una definizione delle “montagne di mezzo”?
MV Al di là del criterio altimetrico, appunto, le montagne di mezzo sono lo spazio montano che l’uomo ha più intensamente abitato, antropizzate da secoli, se non addirittura da millenni. Ma sono anche una geografia in movimento: è un luogo di mediazione in termini di mobilità e spostamenti. È una montagna che dialoga e interagisce con le altre quote. L’idea dell’abitare stanziale, infatti, non si abbina a questo genere di montagne, costituite da fasce altimetriche attraverso cui l’uomo si è sempre spostato. Le montagne di mezzo sono espressione di un abitare politopico, basato su più sedi, a seconda delle stagioni, del lavoro o delle esigenze degli animali. Se pensiamo al nonno di Heidi, che resta immobile ed isolato in una sede di pre-alpeggio anche d’inverno, dobbiamo renderci conto che non si tratta di una condizione naturale. Solo leggendo il romanzo da cui è tratto il cartone capiamo infatti che quello è l’esito di una segregazione sociale: era un reietto dalla comunità.
Nel libro analizza in modo critico il ritorno del selvaggio, di una wilderness montana spesso idealizzata. Perché?
MV Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un’operazione di decostruzione del concetto di wilderness, che si è diffuso nel mondo americano tra Ottocento e Novecento e ha progressivamente invaso anche il nostro immaginario. La wilderness nasce come compensazione dei danni perpetrati dall’uomo a partire dalla Rivoluzione Industriale e come tale porta con sé un immaginario che vede la natura come elemento esclusivamente positivo -a maggior ragione se “incontaminata”, altro concetto chiave- che presuppone che l’uomo sia sempre e soltanto agente contaminante. Questo concetto è un derivato dell’inquinamento, termine che prima della Rivoluzione Industriale non esisteva. Wilderness da noi si traduce con riforestazione naturale, ovvero la riconquista da parte della foresta di spazi prima colonizzati e usati dall’uomo per il prato, il pascolo o il seminativo.
C’è un dato significativo: in Italia nel 2018 la superficie forestale ha superato quella agricola. Gli spazi coltivati sono stati superati da quelli della vegetazione di riconquista, diffusa in particolare nelle montagne di mezzo, dove occupa ormai due terzi della superficie. Si tratta di un fenomeno evidente e diffuso, di fronte al quale molti si sono messi in posizione di elogio, anche autori che stimo come Franco Arminio. Quando si dice che il ritorno del bosco è una salvezza perché “compensa” le emissioni urbane, dobbiamo considerare che questa è solo una compensazione a distanza che non permette di cambiare il modello dissipativo di sviluppo. Non possiamo accontentarci di una compensazione a distanza, magari passando due mesi d’estate in montagna “all’aria buona”, mentre per il resto dell’anno respiriamo polveri sottili in città. Le aree davvero selvatiche sono in realtà repulsive: non stiamo bene se in montagna dobbiamo continuamente stare attenti a lupi, orsi o zecche. Se vogliamo continuare ad abitare la montagna, il selvatico va contingentato, non esteso.
“Le montagne di mezzo sono una geografia in movimento: un luogo di mediazione in termini di mobilità e spostamenti. È una montagna che dialoga e interagisce con le altre quote”
Un capitolo del libro è dedicato alle “montagne di cibo”. In che modo l’agricoltura può rappresentare un’economia virtuosa per queste terre?
MV È il tema attorno a cui costruisco il mio corso di Geografia del cibo: accanto a forme di colonialismo naturalistico c’è oggi un nuovo colonialismo gastronomico. Assistiamo alla spasmodica ricerca di cibo sostenibile e di qualità ma troppe volte la montagna viene usata solo per contrabbandare prodotti che con quei luoghi hanno poco a che fare. Nel libro parlo di tre categorie di montagna per questo fenomeno: le montagne “lontane”, solo di facciata, che fanno da sfondo a prodotti che in realtà sono di pianura; le montagne come “appendice”, da cui originariamente provenivano molti prodotti che oggi vengono perlopiù prodotti industrialmente in fondovalle o in pianura (il bitto, il taleggio, l’asiago); e le montagne “di superficie”, ovvero produzioni ubicate in zone statisticamente classificate come montagna ma che hanno una relazione debole con le caratteristiche dell’ambiente montano, come nel caso dei salumi. Sono rare le carni di alpeggio e anche il latte veramente “di montagna”, che spesso non ha le caratteristiche nutritive per essere definito tale.
“Relazionarsi con l’ambiente di montagna significa evitare la standardizzazione di prodotti spesso imposta anche dai disciplinari: è il punto di forza di questo mondo, che va approcciato a partire da una nuova educazione al gusto”
Per i “Prodotti di montagna” il ministero dell’Agricoltura ha creato un apposito marchio nel 2018 di cui può fregiarsi l’azienda che produce in un Comune classificato come montano o parzialmente montano. Ma non basta stare in montagna per fare un prodotto che ne abbia le caratteristiche. Un esempio virtuoso, invece, viene dai caseifici turnari di Pejo e Campolessi (vedi Ae 224). Sono realtà che dimostrano la capacità di relazionarsi con i caratteri specifici di un ambiente, di avere cura degli animali e stabilire con loro un rapporto umano, di fare rete tra piccoli produttori sul territorio: un modello di cooperazione montana che funziona. Relazionarsi con l’ambiente di montagna significa evitare la standardizzazione di prodotti spesso imposta anche dai disciplinari: è il punto di forza di questo mondo, che va approcciato a partire da una nuova educazione al gusto.
L’abbandono della montagna può diventare complice di uno sfruttamento eccessivo delle sue risorse? Nel libro scrive di energia idroelettrica, di acque minerali, di innevamento artificiale.
MV L’abitare può essere una forma di custodia. In aree abitate, difficilmente un soggetto esterno può accaparrarsi le risorse e sfruttarle al massimo, anche se la tragedia del Vajont ci insegna che questo in passato è avvenuto. Nel caso delle acque minerali, è evidente l’assenza di interazione tra questi stabilimenti sempre più grandi e la società e l’ambiente di media montagna in cui si situano. Colpisce ad esempio l’uso delle immagini, le etichette. Le acque sgorgano sempre da “sorgenti di alta quota”, si vedono sullo sfondo montagne innevate incontaminate. Quest’idea di “purezza” si scontra con una realtà oggi ben più grigia: misurando i ghiacciai ogni anno so benissimo che sono sporchissimi, soprattutto nell’attuale fase di arretramento. Non è detto quindi che l’acqua di alta quota sia davvero “pura”. Giocare sull’alta quota è anche scientificamente e geograficamente sbagliato perché la mineralizzazione avviene nel passaggio tra l’alta quota e le montagne di mezzo. Ma le ditte che imbottigliano sono spesso stabilimenti industriali senza rapporto con il territorio. I canoni di prelievo offrono una compensazione che però è usata spesso per sviluppare un’altra economia di rapina: quella turistica.
Nel settembre 2018 è stato tra i promotori del “Manifesto per una Public Geography”, un invito a “praticare il sapere geografico come impegno verso il bene comune”.
MV In ambito accademico si discute molto dell’impatto delle ricerche, il cosiddetto “Impact Factor”, strumento che misura l’importanza delle riviste scientifiche e il valore delle ricerche pubblicate. Ma di quale impatto stiamo parlando? Come misurare la qualità della ricerca? È un dibattito che si è acceso recentemente e mi sta molto a cuore: per questo abbiamo inaugurato il primo Museo di Geografia in Italia, a Padova, nell’autunno 2019 (vedi Ae 222): un’occasione per connettere il dibattito scientifico al coinvolgimento pubblico. Nella stessa direzione va il nuovo corso di laurea magistrale in Scienze per il Paesaggio, che parte in autunno a Padova (dissgea.unipd.it).
L’obiettivo è quello di superare un’impostazione solo tecnica, guardando all’educazione e alla sensibilizzazione sociale con attività didattiche aperte e dialoganti con il territorio. Un percorso in costruzione che ci porterà al Congresso Geografico Italiano, ospitato sempre a Padova nel settembre 2021: tema centrale saranno le “geografie in movimento”, non solo in termini di mobilità di oggetti e persone ma di metodi innovativi capaci di leggere il presente e guardare con attenzione e consapevolezza al futuro.
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