Diritti / Intervista
Marta Dillon. La potenza dei corpi
Intervista a Marta Dillon, promotrice di Ni una menos. Dal ritrovamento delle ossa della madre, desaparecida sotto la dittatura argentina, alla lotte per i diritti e contro le violenze
La giornalista e attivista argentina Marta Dillon è in Spagna con sua moglie e loro figlio quando riceve la telefonata che le comunica il ritrovamento delle ossa di sua madre, l’avvocata e militante Marta Taboada, sequestrata in provincia di Buenos Aires il 28 ottobre 1976. Dall’altro capo del telefono c’è l’Equipo argentino di antropologia forense: dopo anni di ricerche, dichiara che i resti ritrovati nel cimitero di San Martín appartengono alla militante del Frente revolucionario 17 de octubre, portata via nella casa dove si era nascosta con i figli, detenuta, torturata per quattro mesi e poi assassinata in una strada nella capitale insieme ai compagni di prigionia durante la dittatura di Jorge Rafael Videla (1976-1981). È da qui, dall’annuncio di un evento sofferto ma sperato, che Dillon apre il suo “Aparecida” (Gran via, 2021), testo ibrido tra autobiografia e cronaca dove l’autrice ripercorre la lunga storia della ricerca del corpo della madre fino a quel momento scomparsa.
Sceneggiatrice e autrice di programmi televisivi e documentari, Dillon si pone a metà tra la propria vicenda familiare e quella collettiva delle brutalità dell’ultima dittatura militare argentina. “La generazione di mia mamma ha lottato con il proprio corpo e ha rifiutato il privilegio di classe per trasformare il mondo”, racconta ad Altreconomia. Nel testo appare la storia recente di una nazione: il processo per ottenere verità e giustizia, le storie dei figli degli oppositori del regime. Ma anche la legge per il matrimonio egualitario, l’affermazione di nuovi diritti e battaglie che presentano i volti dell’Argentina di oggi. “Come femministe, noi ci inseriamo nella memoria delle nonne e delle madri di Plaza de Majo”, afferma Dillon, che è stata una delle promotrici del movimento contro la violenza sulle donne Ni una menos. “Recuperiamo una genealogia che non è biologica o privata: è collettiva e si inserisce in quella forma iniziale di ribellione”.
“Aparecida” è insieme cronaca personale e politica. Unisce ricordi di infanzia, il linguaggio giornalistico, il saggio sulla storia sociale dell’Argentina. È stato difficile scriverlo?
MD Non saprei dirlo perché per me scrivere ha sempre le sue difficoltà: richiede molto tempo e implica solitudine. Quando abbiamo trovato mia mamma, e abbiamo identificato i suoi resti, questa era un’esperienza che doveva essere vissuta più di una volta. E la scrittura lo ha permesso. Ma non è stata una strategia per attraversare il dolore né una terapia. Il libro è già percorso da una forma di distacco: l’ho scritto in un anno, ma la sepoltura delle ossa di mia madre era avvenuta tre anni prima. Il tempo che era trascorso mi è servito per elaborare la sofferenza.
“Quando abbiamo trovato mia mamma, e abbiamo identificato i suoi resti, questa era un’esperienza che doveva essere vissuta più di una volta. E la scrittura lo ha permesso”
Che cosa è cambiato per lei dopo avere ritrovato sua madre?
MD Mia madre è tornata a essere un corpo. Ha recuperato uno spazio tra le ossa, nella società, nella trama della vita e della morte che poi sono la stessa cosa. Non era più desaparecida: si trovava nel limbo di quello che era possibile narrare. Questo è stato il principale cambiamento. Riaverla è stato come essermi tolta un peso, anche fisico, che si è alleggerito ancora di più quando ho finito di scrivere. È stato un modo per mettere un punto finale e smettere di essere un’eterna orfana. Come quando una persona cresce e salda i conti aperti con le madri e i padri. Anche se non ne ho avuto la possibilità, è come se fosse avvenuto.
Fa parte di “Hijos e hijas por la identidad y la justicia contra el olvido y el silencio”, associazione dei figli di ex prigionieri politici e desaparecidos vittime della dittatura militare. Che cosa ha rappresentato essere un’attivista dell’associazione?
MD Mi ha salvato la vita. Mi ha aiutato a recuperare un senso di appartenenza e a non sentirmi sola. Mi ha convinto che potevamo trasformare le cose, uscire dall’apatia degli anni Novanta quando ci trovavamo di fronte alla fine della storia. Per me “Hjos” è stato trovare un luogo dove potere discutere di politica e lottare contro l’impunità dei crimini commessi dal terrorismo di Stato ma anche dal modello economico neoliberale. Ha significato recuperare l’allegria di stare nel mondo.
“Ogni volta che scendiamo in strada, è come abitare la vita che vogliamo, stare tra di noi con il nostro corpo liberato delle imposizioni. Credo che questa energia politica abbia influenzato l’America Latina”
Dirige Las12, l’inserto femminista del quotidiano nazionale Pagina12, e da più di venti anni si occupa di femminismo e questioni di genere. Nel dicembre 2020 il Senato argentino approvava la Legge per l’aborto sicuro, libero e gratuito. Dopo un anno, la legge è effettivamente applicata?
MD Faccio parte del consiglio che monitora l’applicazione della legge nella città di Buenos Aires, e tra gli 850 municipi, solo 30 mostrano resistenze nell’applicarla. La copertura si è ampliata molto ma la situazione cambia fuori dalla capitale e dalle grandi città. Nelle province Nord-orientali del Paese ritroviamo organizzazioni religiose fondamentaliste fuori delle porte degli ospedali e alti tassi di obiezione di coscienza, anche se non sarebbe permesso perché, come in Italia, in ogni struttura ospedaliera deve sempre esserci un medico che pratica l’interruzione volontaria di gravidanza. A Salta, nel Nord dell’Argentina, quest’anno una dottoressa è stata arrestata per avere avviato la pratica per un aborto, come previsto ormai dalla legge, ed è stata rilasciata dopo le forti reazioni sociali suscitate dalla sua detenzione. Se l’accesso all’aborto comincia a essere garantito, anche se è necessario lavorare per estenderlo ulteriormente, ci vuole ancora tempo per superare l’idea che sia una scelta di cui vergognarsi, da spiegare e giustificare, e per la quale bisogna sentirsi in colpa.
Lei è una delle promotrici di Ni una menos, nato in Argentina per denunciare le continue violenze sulle donne. Negli anni il movimento è cresciuto. Qual è stata la sua forza?
MD Ni una menos appare nel giugno 2015 con una prima manifestazione in strada, nell’ultimo anno del governo della presidente Cristina Kirchner. Nasce da un gruppo di intellettuali, artiste e comunicatrici femministe: molte di noi avevano un’esperienza militante al di fuori dei partiti politici, un percorso più sociale e legato al corpo. Tante volte avevamo contato i femminicidi in Argentina senza però riuscire a ottenere alcuna sensibilizzazione. Come dicevano le persone transgender, queste morti non entravano nell’“agenda emotiva” dello Stato. L’uso dei social network ha creato un’agorà: ci ha permesso di condividere esperienze che prima ognuna viveva in solitudine o con le proprie amiche. C’era un coro di voci che raccontava quando ti infastidiscono e ti aggrediscono, quando hai paura a girare la notte per strada. Discutevamo di qualcosa che tutte conosciamo, parlando un linguaggio che tutte capiamo.
Abbiamo detto che le vittime di femminicidio morte ogni giorno sono le nostre vittime e non sono isolate. Che la violenza sulle donne è un problema strutturale, culturale e profondamente politico. Abbiamo reso visibili i femminicidi ma anche le diseguaglianze economiche, un problema che non si risolve con strumenti liberali o progressisti ma necessita il cambiamento del sistema di produzione, della base sociale, del modo in cui si ripartisce la ricchezza. Allo stesso tempo abbiamo lottato contro la violenza machista e per le pensioni che non arrivavano a chi ha dedicato tutta la vita a lavori domestici. Oggi ci stiamo mobilitando per fare sì che le persone transgender, che negli anni hanno subito violenze e soprusi, ricevano una pensione minima. È una forma di riparazione storica.
Crede che Ni una menos abbia influenzato anche altri Paesi in America Latina?
MD Sì. È stato come una marea, un virus capace di contagiare molto al di là del contatto corpo a corpo e di attraversare le frontiere. Ha trasformato la rabbia in una scrittura collettiva, ribelle, desiderante. Ogni volta che scendiamo in strada, è come abitare la vita che vogliamo, stare tra di noi con il nostro corpo liberato delle imposizioni. Credo che questa energia politica abbia influenzato l’America Latina anche se ogni processo territoriale ha le sue caratteristiche. Il Cile ne è una prova: le organizzazioni del femminismo cileno hanno portato ad avere oggi molte femministe nel gruppo che sta riscrivendo la Costituzione.
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