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L’ultima versione della “Nature restoration law” vista da vicino

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A inizio novembre, dopo un complicato iter, è stato pubblicato il testo aggiornato del regolamento europeo che ha l’obiettivo di ripristinare il 20% del territorio terrestre e marino del continente entro il 2030, incrementando poi gli sforzi negli anni a venire. A una lettura attenta emergono alcune criticità

La legge europea sul “Ripristino della natura” intravede il traguardo. Lo scorso 9 novembre, dopo un lungo e complicato iter legislativo, è stata finalmente resa pubblica l’ultima versione della cosiddetta “Restoration Law”, il regolamento europeo che ha l’obiettivo di ripristinare il 20% del territorio terrestre e marino del continente entro il 2030, incrementando poi gli sforzi negli anni successivi.

La legge prevede inoltre una serie di target per il ripristino di ecosistemi specifici come i fiumi, le foreste e l’ambiente urbano, ma soprattutto reintroduce obiettivi relativi al recupero della biodiversità in ambienti dove l’attività umana è molto intensa, com’è il caso delle aree agricole, delle zone umide e degli ecosistemi marini. Si tratta di un risultato di assoluta rilevanza, che emerge dopo un lungo negoziato tra i rappresentanti del Parlamento, della Commissione e del Consiglio europeo, che negli ultimi mesi si sono riuniti e ne hanno discusso i dettagli durante il “Trilogo”.

Nonostante i primi entusiasmi, a una lettura più attenta emergono però alcune criticità: diverse misure introdotte in un primo momento sono state ora indebolite, ci sono alcune contraddizioni negli obiettivi con alcune norme già in vigore ed è in parallelo aumentato il potere discrezionale lasciato agli Stati membri nell’interpretazione e implementazione del regolamento. Tra le modifiche apportate emerge la clausola inserita all’articolo 22 che permette la sospensione temporanea delle misure in contesti agricoli in caso di emergenze “imprevedibili ed eccezionali” con effetti socioeconomici sulla produzione di cibo. Questa modifica, che va incontro alle preoccupazioni di alcune associazioni di categoria, fa allo stesso tempo trasparire l’idea che puntare sul recupero della biodiversità abbia un effetto negativo sulle colture stesse, contrariamente a quanto sostenuto dai molti scienziati e ricercatori che si sono esposti pubblicamente a favore della legge negli scorsi mesi. Inoltre, il modo stesso in cui sono stati riformulati alcuni degli articoli fa intuire un generale ridimensionamento delle aspettative rispetto alla sua realizzazione: si è passati da disposizioni che chiedevano agli Stati membri di “mettere in atto misure per il ripristino” alle attuali che invece chiedono di “mettere in atto misure che (a loro volta) devono mirare a ripristinare”. In pratica questo significa che ai Paesi membri potrebbe venire chiesto di dimostrare di aver iniziato dei processi di ripristino, non tanto di dimostrarne l’efficacia nei risultati. 

Così facendo, secondo Alexandra Aragão, docente di Diritto dell’ambiente all’Università di Coimbra in Portogallo, “si corre il rischio che il regolamento sia manipolato e che diventi una semplice scatola vuota in cui anche gli Stati poco ambiziosi possano legalmente dimostrare di rispettare la legge”. 

Un altro punto critico è legato poi al finanziamento di queste pratiche: è stato chiesto alla Commissione di produrre un report approfondito sul tipo di costi e di fonti di finanziamento di quella che può essere effettivamente un’opera di restauro della biodiversità molto costosa. Allo stesso tempo, però, si è deciso che i budget relativi alle politiche agricole e alla pesca presentati dagli Stati membri non debbano necessariamente essere modificati, ma possano mantenere la loro forma attuale. Si tratta di un dettaglio non banale. Sempre secondo Aragão questo potrebbe essere infatti un modo per indebolire ulteriormente la legge lasciando alla Commissione l’onere di ammettere che gli interventi proposti sono economicamente insostenibili.

Un ulteriore elemento problematico è legato invece al ripristino degli ecosistemi marini. Secondo Betty Queffelec, ricercatrice di Diritto del mare dell’Università di Brest, nella Francia Nord-occidentale, “occorre fare una distinzione tra il segnale politico e la rilevanza giuridica di uno strumento: senza dubbio è positivo, politicamente, che il mare sia tutelato e inserito in una legge chiave come quella sul ripristino della natura. Dall’altra parte, la normativa esistente sulla tutela del mare contiene target e scadenze diverse e più stringenti (seppur a oggi poco implementate) rispetto a quelle previste dal regolamento di cui si parla attualmente, e gli Stati membri potrebbero approfittare di queste incongruenze per rimandare ancora una volta la realizzazione di misure utili a migliorare la qualità delle acque marine”. 

In ogni caso è una notizia positiva se il regolamento è arrivato fino a questo punto nonostante le forti pressioni esterne. Chi ha a cuore la biodiversità può ritenersi soddisfatto perché per la prima volta in Europa e nel mondo si ha un segnale forte di cambio di passo nella gestione delle risorse naturali, non solo con l’assunzione di una nuova prospettiva sull’ambiente -secondo cui non basta più solo “proteggere” ma occorre anche recuperare quello che per incuria o per dolo è stato nel tempo danneggiato o degradato- bensì anche con uno strumento giuridico forte, che offre maggiore capacità di monitoraggio e controllo sull’azione a livello nazionale. 

Per Jan Frouz, ecologo dell’Università Carolina di Praga che da diversi anni si occupa recupero di siti particolarmente degradati, il vero elemento di novità della legge sul ripristino della natura è il suo “elevare il restauro degli ecosistemi al livello di altre attività fondamentali, come l’agricoltura e la pesca. Non si tratta di escludere le attività umane o di attaccarle, ma di riconoscere che recuperare la ricchezza della biodiversità è altrettanto importante e porta vantaggi a tutti. Prima ce ne renderemo conto meglio sarà, perché potremo allora partire con una vera pianificazione e gestione delle attività di ripristino: in molti casi la natura è in grado da sola di fare moltissimo, in altri casi occorre invece velocizzare questi processi coinvolgendo le amministrazioni pubbliche, le comunità locali e le aziende specializzate. Negli anni Novanta la rimozione del suolo contaminato costava tre volte tanto i prezzi attuali, perché non dovrebbe essere così anche per altre soluzioni di ripristino?”. Considerando che al momento la normativa è estremamente eterogenea tra i diversi Paesi europei, soprattutto per quelli in maggiore difficoltà economica, potrebbe essere un’occasione unica per riprendere in mano il proprio patrimonio ambientale e decidere che cosa farne.

Restano da compiere ancora dei passaggi ulteriori. Prima di tutto il voto in Commissione Ambiente e il passaggio finale del Parlamento europeo previsti per gennaio 2024, poi la ratifica del testo da parte degli Stati membri. La palla infine passerà ai governi nazionali che dovranno trasformare la legge in piani attuativi e intervenire, in pratica, nel territorio.

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