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Diritti / Attualità

L’Italia riconosce finalmente lo status di rifugiato all’attivista saharawi Mohamed Dihani

L'attivista Mohamed Dihani © Francesca Lequaglie

Dopo anni di battaglie legali, l’attivista torturato e incarcerato dal regime marocchino per il suo impegno a sostegno dei diritti umani del popolo del Sahara Occidentale, ha avuto giustizia dal Tribunale di Roma. Eppure per le autorità italiane, le stesse che ritengono a torto il Marocco un “Paese sicuro”, resta ancora persona segnalata per motivi di sicurezza. I suoi avvocati spiegano che si tratta di un “risultato enorme”

Aveva detto di essere fiducioso, che tutto sarebbe cambiato. E così è stato: dopo anni di attesa, Mohamed Dihani, l’attivista sahrawi sequestrato, torturato, incarcerato e condannato per terrorismo dal regime marocchino, perché da sempre difende i diritti umani del suo popolo, ha finalmente ottenuto lo status di rifugiato dalla giustizia italiana. 

È felice Mohamed quando risponde al telefono: “La sentenza rispecchia quello che desideravo e riconosce quanto avrei rischiato se fossi tornato nel Sahara”. Con il decreto pubblicato il 16 settembre il Tribunale civile di Roma ha stabilito infatti che necessita della protezione internazionale. “È un risultato enorme -dice entusiasta Cleo Maria Feoli, una dei due avvocati di Dihani-, rende giustizia a una persona vittima di gravissime persecuzioni che anziché essere aiutata (dall’Italia, ndr) è stata per troppo tempo definita come pericolosa per la sicurezza nazionale e riconosce il Marocco come un Paese non sicuro, quantomeno nei confronti della popolazione sahrawi”. 

Il Tribunale di Roma ha definito “inspiegabile” il rigetto della sua richiesta di asilo nel maggio 2023 da parte della Commissione territoriale che aveva dichiarato appena che “Mohamed Dihani non ha prodotto elementi sufficienti per ritenere che, nel suo caso, il Marocco non è un Paese sicuro”, e nessun’altra specifica.

Provenire da un cosiddetto “Paese sicuro” ha indotto la Commissione a nascondersi dietro la clausola di presunzione di sicurezza che consente di non motivare il provvedimento di rigetto e di limitarsi ad affermare che mancano prove che dimostrino che ne abbia diritto. Ma in precedenza la stessa Commissione durante il colloquio aveva affermato di essere ampiamente a conoscenza delle torture che l’attivista aveva subito e aveva disposto un accertamento medico legale da effettuarsi presso una struttura pubblica italiana che attestasse la presenza di queste violenze, a cui Dihani si è sottoposto.

“Il rapporto è stato inviato direttamente dal Samifo, la Struttura sanitaria a valenza regionale per l’assistenza e la cura di richiedenti asilo -ricorda Feoli-, quello che è scioccante è che nel provvedimento di diniego la Commissione non cita minimamente né di aver chiesto questo documento né di averlo ricevuto”. L’avvocata continua: “Questo caso dimostra che la clausola può a volte essere usata in modo strumentale dall’amministrazione proprio in ragione di relazioni internazionali che sono ritenute evidentemente più importanti”. 

Ora però tutto quello che l’attivista ha subito è stato riconosciuto. “È una grande vittoria”, sottolinea Amnesty International Italia che si occupa del caso Dihani dal 2010. “Questa vicenda racchiude insieme tante ingiustizie -spiega Debora Del Pistoia, ricercatrice dell’organizzazione- e finalmente questa sentenza le mette a nudo. Dalle violenze in Marocco, ai problemi con la giustizia italiana che gli ha negato il visto per anni, finanche la segnalazione alla banca dati Sis II, il sistema di informazione Schengen di seconda generazione che raccoglie dati sulla tutela della sicurezza pubblica, che non è mai stata argomentata dalle autorità italiane”. 

Sono numerosi i punti in ombra su questo caso, non ultimo il fatto che Dihani per l’Italia al momento è una persona segnalata per motivi di sicurezza nazionale, come un terrorista, sulla base probabilmente delle dichiarazioni del governo marocchino. “Questo è gravissimo -riprende Del Pistoia-, si deduce in maniera abbastanza chiara che l’Italia non ha fatto alcuna verifica e ha dato per buone le informazioni passate dal Marocco, che è uno stato autoritario, accusato di gravissime violazioni dei diritti umani”.

Nonostante il Tribunale di Roma abbia accolto la richiesta degli avvocati di avere accesso alla segnalazione e che avvenga la cancellazione dalla blacklist, per il momento il suo nome è fermo ancora lì, finché non si pronuncerà la Cassazione. Di certo la fortuna di Mohamed è stata avere vicino persone che si sono occupate di lui e hanno dato risonanza al suo caso, ma è al suo coraggio che deve tutto.

Nato nel 1986 nel Sahara Occidentale, ultima colonia africana, occupata dal Marocco, ha deciso di interessarsi alla causa del suo popolo all’età di nove anni e da quel momento è stato vittima di continui atti di persecuzione per motivi politici da parte delle autorità marocchine. I Saharawi dal 1975 vivono tra i campi profughi in Algeria e tra la regione del Sahara occidentale e il governo marocchino esercita su di loro, da decenni, una violenta repressione. Il primo fermo risale a quell’età durante una manifestazione pacifica per l’autodeterminazione di questo popolo. Da quel momento è stato un continuo entrare e uscire da posti di Polizia e celle, subendo violenze sempre maggiori. È stato vittima per lungo tempo di gravi violazioni dei diritti umani dopo una sparizione forzata tra il 2010 e il 2015 e ingiustamente condannato dalla Corte d’appello di Rabat con l’accusa di terrorismo.

Era il 28 aprile 2010 quando è stato rapito dall’intelligence. Lo hanno portato nel centro di detenzione segreto di Tmara, vicino alla capitale del Marocco, Rabat. Dihani precisa: “alcuni giornali internazionali, come Washington Post ed El Pais lo chiamano ‘Guantanamo dell’Africa’, perché lì usano la cosiddetta tortura avanzata”. Lui ancora oggi lo chiama il “castello delle tenebre”. 

“Ho subito abusi inimmaginabili, non solo fisici, ma anche psicologici. Tortura quotidiana”, racconta. Bendato e legato, colpito con bastoni, cinghie e sbarre di ferro. Viene seviziato secondo la tecnica denominata falaka – che consiste in forti percosse inflitte con un manganello o un oggetto simile sotto i piedi, talvolta alle mani. Una tortura che può provocare invalidità permanenti. Subisce abusi sessuali e percosse sugli organi genitali. Inoltre, è stato costretto ad assistere a due stupri.

Mohammed si blocca, la voce gli si strozza in gola: “Ah il Marocco, bella Marrakech, Casablanca, com’è figo il Marocco”. La vicenda tuttavia non può dirsi del tutto conclusa: l’Avvocatura generale dello Stato ha 30 giorni per presentare ricorso in Cassazione. 

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