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Esteri / Reportage

In Marocco abortire è ancora una questione di vita o di morte

Alcune dimostranti protestano per la liberazione di Hajar Raissouni, giornalista marocchina condannata nell’ottobre 2019 a un anno di carcere per aborto “illegale” e relazioni sessuali al di fuori del matrimonio successivamente graziata dal re Mohammed VI © Epa/Jalal Morchidi/Ansa

Oggi chi vuole interrompere una gravidanza deve ricorrere alla clandestinità, andando incontro a gravi rischi. Alle promesse di apertura di re Mohammed VI non sono seguiti passi avanti concreti. E chi protesta paga gravi conseguenze

Tratto da Altreconomia 271 — Giugno 2024

Quando Karima all’età di 17 anni ha deciso di mettere fine a una gravidanza indesiderata, il dottore che dietro pagamento le ha praticato un aborto clandestino non ha usato l’anestesia. “Prima dell’operazione mi ha presa a schiaffi e mi ha insultata -racconta-. Diceva di volermi insegnare a non avere mai più un rapporto sessuale fuori dal matrimonio”. Karima, nome di fantasia, vive in Marocco e storie come la sua sono all’ordine del giorno in un Paese che, nonostante i progressi fatti in alcuni ambiti, mantiene in vigore una legge fortemente limitante sull’interruzione di gravidanza. Il diritto all’aborto è infatti previsto solo in caso di rischio per la vita della donna e previo permesso del marito.

La legislazione sul tema è bloccata da anni, ma il problema torna al centro del dibattito pubblico ogni volta che una donna muore a causa di un aborto clandestino o quando i medici costretti a praticarlo di nascosto vengono arrestati. Nel settembre 2022 le proteste sono dilagate a seguito del decesso di una 14enne di nome Meriem, a causa di un aborto praticatole da una sedicente ostetrica a casa del suo stupratore. Decine di persone sono scese in strada a manifestare davanti al Parlamento al grido di “Siamo tutte Meriem”, con l’obiettivo di chiedere nuovamente un accesso sicuro all’interruzione di gravidanza. “I manifestanti non saranno stati più di 150. Per una democrazia forse si tratta di un numero basso -spiega la dottoressa Narjis Benazzou, della Ong Hors la Loi (Fuori legge)-. Ma per gli standard a cui siamo abituati qui è stato un successo, perché l’aborto è considerato un tema troppo delicato perfino per i più ferventi attivisti. In pochi sono pronti a metterci la faccia”.

Hors la Loi è una realtà nata nel 2019 per chiedere il rilascio della giornalista marocchina indipendente Hajar Raissouni che, all’epoca, fu condannata a un anno di carcere per aborto clandestino e relazione extramatrimoniale. L’attenzione mediatica suscitata dal caso Raissouni aveva spinto re Mohammed VI a concederle la grazia. Ma per una singola donna salvata, migliaia di altre devono piegarsi a un destino diverso. “Il divieto non è mai riuscito a fermare chi non vuole avere figli, semmai accentua le differenze tra classi sociali -sottolinea Benazzou-. Le più ricche possono andare all’estero, comprare la pillola al mercato nero o pagare un medico privato che per un’operazione simile può chiedere anche mille euro. Quelle povere, la maggior parte, continueranno a rischiare di morire”.

Nell’intricato cammino per la conquista dei diritti civili, il vero campo di battaglia è rappresentato da internet, lo strumento più sicuro per aggirare il controllo del regno. Un futuro migliore si costruisce petizione dopo petizione, tweet dopo tweet, dentro uno spazio virtuale che ha il pregio di superare i confini di ceto e di raggiungere anche le aree rurali del Paese, dove i livelli di scolarizzazione si abbassano drasticamente. Gli spazi fisici come le piazze o i caffè letterari, al contrario, sono secondari, ridotti al minimo indispensabile per i rischi di aggressione a cui espongono le attiviste. Per lo stesso motivo, fuori della sede della Hors la Loi nessuna insegna o nome sul campanello lascia presumere che oltre la porta di ingresso decine di persone si incontrino regolarmente per rendere il Marocco un posto più equo. “Nessuno in questo condominio sa di noi, se scoprissero della nostra esistenza, correremmo dei rischi -prosegue la dottoressa-. Il governo, inoltre, non ci riconosce in quanto associazione. Esserlo ci garantirebbe delle tutele, ma la nostra richiesta viene puntualmente rigettata, anche se non ci hanno mai spiegato il perché”. Benazzou ha scelto di prendere parte a questa battaglia dopo aver assistito alle condizioni pericolose e umilianti a cui vengono sottoposte le donne che vogliono interrompere la gravidanza.

Yasmina Benslimane (yasminabenslimane.org) è un’attivista femminista marocchina. In occasione della Giornata internazionale dell’aborto, il 28 settembre 2023, ha lanciato una petizione per porre l’attenzione sulla morte della 14enne Meriem a seguito di un aborto clandestino © linkedin.com/posts/yasminabenslimane

Dagli Stati Uniti, anche l’attivista Yasmina Benslimane ha deciso di dare il suo contributo spinta da una ragione personale. “Sono cresciuta senza padre e ho visto le difficoltà affrontate da mia mamma in quanto donna sola. Combatto perché non voglio che altre passino quello che ha passato lei”. A proposito dell’importanza del web, Yasmina ha lanciato una petizione per porre l’attenzione sul caso Meriem e sull’ipocrisia di un codice penale che proibisce le relazioni fuori dal matrimonio ma non ha una posizione di condanna altrettanto netta in casi di violenza sessuale e di incesto. “Oltre che per la depenalizzazione dell’aborto, bisogna lottare per introdurre l’educazione sessuale nelle scuole, spiegare che cosa sono la contraccezione e il concetto di consenso. Le due cose vanno in parallelo. E anche se ogni volta che mi espongo subisco minacce di stupro e di morte, l’odio che ricevo mi fa capire che sono sulla strada giusta”.

“Il divieto di abortire non è mai riuscito a fermare chi non vuole avere figli, semmai accentua le differenze tra classi sociali” – Narjis Benazzou

Nel 2015 a seguito di un periodo di forti pressioni da parte della società civile, re Mohammed VI aveva affidato a una commissione il compito di valutare possibili aperture. Ne era derivata una raccomandazione ad autorizzare l’aborto in “casi di forza maggiore”, come circostanze di stupro o gravi malformazioni del feto. A sette anni di distanza, tuttavia, nessun passo concreto è stato fatto in questa direzione. E le circa 600 donne che ogni giorno ricorrono all’aborto clandestino continuano a essere punibili fino a due anni di reclusione (cinque per chi ha aiutato ad abortire).

“Anche se ogni volta che mi espongo sul diritto all’aborto subisco minacce di stupro e di morte, l’odio che ricevo mi fa capire che sono sulla strada giusta” – Yasmina Benslimane

Secondo l’Islam l’interruzione di gravidanza può avvenire finché il feto non ha sviluppato un’anima, ossia entro i 40-120 giorni dal concepimento. Le radici culturali di una così restrittiva legge sull’aborto non vanno dunque cercate nell’eredità religiosa, ma in quella coloniale. Molte delle norme che all’interno del codice penale limitano le libertà delle donne sono infatti state formulate ai tempi dell’occupazione francese. Dall’indipendenza, tuttavia, sono trascorsi oltre sessant’anni, e poco o nulla è cambiato. “Certe leggi aberranti esistono ancora perché è la società marocchina a essere patriarcale, basata com’è su una religione che è sessista come lo sono tutte le religioni. Non abbiamo più scuse, la colpa è del Marocco”, spiega Ibtissame Betty Lachgar, che fa parte del Movimento alternativo per le libertà individuali (Mali). Dall’anno della fondazione nel 2012, questa realtà ha aiutato circa 500 donne ad avere la pillola abortiva gratuitamente, in collaborazione con la Ong olandese Women on Waves. Ma Ibtissame ha pagato a caro prezzo il suo attivismo. “Sono stata più volte minacciata e nel 2017 mi hanno arrestata e molestata tre poliziotti. Quello che mi hanno fatto, però, non mi ha fermata”.

Anche il dottor Chafik Chraibi, fondatore dell’associazione contro l’aborto clandestino Amlac, ha subìto conseguenze per la sua attività divulgativa. Nel 2015 dopo aver dato il permesso a una troupe televisiva di entrare nell’ospedale in cui lavorava per documentare i pericoli dell’aborto clandestino, perse il suo posto di direttore del reparto di ginecologia e ostetricia. “Io non mi occupo né di religione né di politica, ma di scienza -spiega Chraibi nel salotto della sua casa a Rabat-. Ed è la scienza a dimostrare che, finché le donne che vogliono abortire non potranno ricorrere a metodi sicuri, continueranno a rischiare di morire di emorragia o di infezioni”.

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