Diritti / Opinioni
L’Italia che nega la tortura deve preoccuparci
La risposta delle istituzioni alle denunce dei migranti raccolte da Amnesty nel rapporto sugli hotspot è un messaggio ambiguo e minaccioso. “Distratti dalla libertà”, la rubrica di Lorenzo Guadagnucci
“Cretinaggini”: il vocabolo è inconsueto e si fatica a reperirlo nei dizionari della lingua italiana. Ancora più inusuale è che un epiteto del genere sia scelto da un importante funzionario pubblico, qual è il prefetto Mario Morcone, responsabile del Dipartimento immigrazione del ministero dell’Interno. Lo ha usato per definire i principali contenuti di un Rapporto dedicato a quanto accade nei cosiddetti hotspot, i centri di identificazione per migranti, da Amnesty International, la maggiore organizzazione internazionale di tutela dei diritti umani, fondata nel 1961 e premiata nel ’77 con il Nobel per la pace. Secondo Morcone sono “cretinaggini” e “falsità costruite a Londra” (dove ha sede Amnesty) le denunce di abusi e violenze fisiche e psicologiche segnalate da 24 persone fra le 170 incontrate e intervistate dai ricercatori di Amnesty in Italia durante l’inchiesta sui nostri hotspot. Le violenze, secondo l’organizzazione, sarebbero legate alle pressioni esercitate per spingere i più riottosi a farsi prendere le impronte digitali, come l’Unione europea pretende.
141 i Paesi nel quali sono stati denunciati episodi di maltrattamento e tortura praticati da pubblici funzionari fra il 2009 e il 2014 (Amnesty International, 2016)
Il Rapporto è stato realizzato secondo i metodi di ricerca tipici dell’organizzazione: la raccolta delle informazioni è durata mesi, le denunce sono state confermate da più testimoni, l’autorità preposta -quindi il ministero degli Interni- è stata avvisata e interpellata durante le indagini (ma non ha replicato né risposto alle domande). Le denunce sono dettagliate: una donna eritrea di 25 anni ha detto d’essere stata schiaffeggiata ripetutamente; un ragazzo di 16 anni originario del Darfur d’essere stato colpito più volte con un manganello elettrico; un sedicenne e un uomo di 27 anni hanno parlato di umiliazioni sessuali. Normalmente i governi democratici chiamati in causa da Amnesty International prendono atto delle denunce e compiono (o almeno annunciano di avviare) le dovute verifiche, ed è ovvio che sia così: quale Paese, quale polizia, quale esercito può considerarsi al riparo dagli abusi di potere?
Sostiene Morcone: “Che le forze di polizia operino violenza sui migranti è totalmente falso” (agenzia Ansa, 3 novembre 2016). Aggiunge Franco Gabrielli, capo della Polizia: “Smentisco categoricamente che vengano utilizzati metodi violenti sui migranti sia nella fase di identificazione che di
rimpatrio” (agenzia Ansa, stessa data). Altre voci hanno intonato lo stesso coro: dal ministro degli Esteri Gentiloni al sindacalismo di polizia pressoché compatto.
Le notizie sono dunque due. Una è contenuta nel Rapporto e riguarda gli abusi denunciati da 24 persone; l’altra, se possibile più allarmante, è la violenta risposta dei vertici del ministero dell’Interno, con piena copertura politica e governativa. Se c’è una costante che si riscontra lungo tutta la storia della tortura praticata nei regimi democratici (e spesso anche in quelli autoritari), è la negazione pregiudiziale che la tortura esista. È un negazionismo ricco di ambiguità: si deve sapere e non sapere; si smentisce ma si lascia intuire che qualcosa c’è.
È un’ambiguità minacciosa. L’Italia è stata condannata l’anno scorso dalla Corte europea per i diritti umani per le torture praticate alla scuola Diaz di Genova nel luglio 2001; attende altre decine di condanne analoghe per il caso Diaz e per il parallelo caso Bolzaneto; è in attesa di giudizio davanti alla stessa Corte per gli abusi inflitti a due detenuti nel carcere di Asti. Ma la tortura in Italia non c’è. Le denunce sono invenzioni. “Cretinaggini”, “falsità”, immeritevoli di verifiche. Il messaggio è chiaro, e preoccupa non poco.
Lorenzo Guadagnucci è un giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, “Noi della Diaz” e “Parole sporche”
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