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Diritti / Intervista

L’Italia deve proteggere gli attivisti per i diritti umani

Francesco Martone, di “Un ponte per…”: “Al momento in Italia non sono chiare e nemmeno trasparenti le procedure da seguire quando c’è da chiedere l’intervento delle ambasciate italiane per assistere o monitorare, se non mettere in salvo, un attivista minacciato”

Luiz Claudio Silva, attivista brasiliano impegnato contro gli sfratti forzati durante la preparazione delle Olimpiadi di Rio 2016. © Victor Ribeiro/Front Line Defenders

“Noi vorremmo che l’Italia s’impegnasse nella tutela degli attivisti per i diritti umani” dice Francesco Martone, responsabile delle attività di advocacy dell’associazione “Un ponte per…”. E quando dice Italia intende il governo italiano, e non solo le organizzazione non governative e quelle che si occupano di interposizione civile: “Al momento in Italia non sono chiare e nemmeno trasparenti le procedure da seguire quando c’è da chiedere l’intervento delle ambasciate italiane per assistere o monitorare, se non mettere in salvo, un attivista o un partner minacciato, e questo lo abbiamo sperimentato nel corso degli anni, in particolare per il nostro impegno in Iraq. Sappiamo però che in tutta Europa esistono ‘buone pratiche’ e ‘linee guida’ per i corpi diplomatici da seguire e da copiare”.

È per questo che “Un Ponte per…”, insieme a un tavolo di lavoro di cui fanno parte una ventina di realtà (ci sono Ong come il COSPE, ma anche organizzazioni come Greenpeace e Legambiente, la sezione italiana di Amnesty International, Antigone e gruppi di avvocati come Giuristi democratici e la Campagna avvocati minacciati delle Camere Penali italiane), sta facendo pressioni su governo e Parlamento affinché l’Italia sviluppi procedure e modalità standard di sostegno e accoglienza, che dovrebbero riguardare non solo attivisti ma anche giornalisti o avvocati minacciati, tutti coloro che subiscono intimidazioni per tutelare o promuovere i diritti umani o ambientali, i soggetti cui è dedicata la copertina del numero di febbraio 2017 di Altreconomia.

Nel giugno del 2016 è partita una prima campagna, che ha visto come capofila l’AOI, l’associazione delle organizzazione di solidarietà internazionale ed era focalizzata sull’Egitto, dato che molte Ong italiane lavorano con il Paese sul Mediterraneo e il caso Regeni aveva portato interesse sulle violazioni nei confronti degli attivisti egiziani. “Da lì a poco è divenuta evidente l’esigenza di allargare il campo a una campagna che non fosse connotata solo su base geografica -spiega Martone-. Abbiamo realizzato un dossier, che è stato fatto circolare tra i Parlamentari, e abbiamo inviato una lettera a Paolo Gentiloni, allora ministro degli Esteri”.
Gentiloni non ha mai risposto, sottolinea Martone, ma il processo era ormai innestato: “La Commissione esteri della Camera dei deputati ha approvato, il 31 gennaio 2017, una risoluzione, in accordo con la Farnesina, e che possiamo considerare un buon punto di partenza”. La risoluzione, infatti, riconosce tutte le “buone pratiche” in essere -dai “visti umanitari” proposti dall’Irlanda alla rete di “shelter cities”, città rifugio, presente in Olanda- e invita il governo italiano ad adottarle.

“L’Italia dovrebbe formare il proprio personale diplomatico, e per farlo può prendere spunto dai documenti di indirizzo e dai manuali redatti in molti Paese, e disponibili anche on line” dice Martone. Olanda, Spagna, Irlanda, Finlandia, Norvegia e Svizzera sono all’avanguardia, e anche il Canada si sta ispirando nella sua azione in materia ai Paesi dell’UE.

Secondo il rappresentante di “Un ponte per…”, la campagna si occuperà anche di casi specifici. Lo ha già fatto e lo sta facendo in questo momento in relazione a un difensore in pericolo, Miller Dussán, professore universitario e leader di ASOQUIMBO, in Colombia, sotto processo per aver guidato le proteste contro la realizzazione di una diga. “Questo ed altri -sottolinea Martone- saranno banchi di prova dell’effettiva volontà politica del governo e della Farnesina di dar seguito agli impegni presi tra l’altro nel quadro dell’ultimo Piano di azione UE sui diritti umani”.

A fine gennaio una delegazione dei promotori della campagna è stata ricevuta al ministero degli Esteri dai funzionari competenti per la materia: “In attesa di definire le ‘linee guida’, stiamo cercando di costruire un percorso che permetta una triangolazione tra la Farnesina e gli enti locali, per introdurre anche in Italia un sistema simile a quello delle ‘città rifugio’ olandesi. La società civile, responsabile delle segnalazioni, aiuterebbe anche a finanziare la permanenza in loco per un periodo di tempo degli attivisti/difensori minacciati, mentre il ministero degli Esteri faciliterebbe le procedure per l’ottenimento del visto” racconta Martone.

La campagna ha al momento come orizzonte l’anno 2018, quando all’Italia toccherà presiedere l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), che in merito ai difensori per i diritti umani ha delle linee guida estremamente chiare e vincolanti. Entro quella data l’Italia dovrebbe adottarle, con un focus anche sul ruolo delle imprese. Anche perché sono già passati oltre 5 anni dall’adozione delle linee guida Onu in materia -UN Guiding Principles on Business and Human Rights, 2011.
Va sottolineato che l’Italia ha adottato a fine 2016 un Piano d’azione nazionale in materia (che include anche qualche riferimento ai difensori dei diritti umani) ma la sua implementazione, secondo una recente analisi dell’European Coalition for Corporate Justice (ECCJ, ne fa parte per l’Italia Mani Tese), “sarà di difficile monitoraggio, poiché non esiste un crono-programma né vengono individuate in modo chiaro le responsabilità”.

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