Diritti / Opinioni
L’intervento umanitario e il dilemma della neutralità
Curare le vittime di una catastrofe è un dovere, indipendentemente dagli schieramenti. Ma rimanere spettatori non è sempre facile. “Il volo a pedali”, la rubrica di Luigi Montagnini
“Intervenire ad ogni costo?” è il titolo di un libro in cui Medici Senza Frontiere cerca di spiegare i dilemmi che deve risolvere quando intraprende un’operazione in un Paese in guerra.
Quando non si tratta di curare le vittime di una catastrofe naturale ma ci si trova nel mezzo di un conflitto armato, l’intervento umanitario deve tenere conto delle parti in causa e negoziare con ciascuna di esse la propria presenza e il proprio ruolo. Un ferito è ferito e basta, a qualunque schieramento appartenga, ma proprio nel suo essere ferito di guerra vi è la denuncia di una contrapposizione violenta: soccorrerlo vuol dire compromettere la percezione delle proprie neutralità (cioè non schierarsi) e imparzialità (cioè garantire le cure a tutti).
Essere imparziali e neutrali, infatti, non è mai solo una questione di coscienza, ma diventa un dovere quotidiano da trasmettere sia a chi è oggetto del nostro intervento, sia a chi ne è stato il carnefice. Senza questo stile non potremmo intervenire in zone di guerra e se non facessimo di questi principi il nostro impegno, diverremmo carnefici noi stessi.
Capita però che la dimostrazione di prendersi cura di tutti e di non schierarsi politicamente non venga interpretata come una garanzia di correttezza, anzi, eroda il patrimonio di fiducia conquistato dall’organizzazione e metta a rischio la nostra presenza.
Diventa così sempre più difficile operare dove la sicurezza degli operatori umanitari dipende dalla costante capacità di negoziazione con i rappresentanti delle forze in campo. Da situazioni in cui ostentare il proprio simbolo era garanzia di protezione, ci siamo ritrovati in conflitti dove dobbiamo nasconderci per poter prestare soccorso a chi ne ha bisogno.
Rapimenti e uccisioni di nostri operatori, minacce di espulsioni dai Paesi in cui siamo presenti, violazioni intenzionali al diritto umanitario che arrivano fino alla distruzione deliberata di strutture sanitarie, ci interrogano su quale sia il limite, se esiste, oltre il quale dobbiamo riconoscere che non possiamo intervenire.
47%. È la percentuale della popolazione con età inferiore a 15 anni che viveva in Somalia nel 2013, quando MSF, dopo una serie di violenti attacchi contro il suo staff in diverse parti del paese, ha chiuso tutti i progetti e ha abbandonato il terreno (in Italia lo stesso dato nel 2013 era pari al 14%. Fonte: Organizzazione mondiale della Sanità)
In ogni contesto, si impone, poi, la nostra storia, il nostro nome, che è nome francese, e che anche quando tradotto in altre lingue conserva la sua identità europea. Il progressivo aumento nei nostri progetti di operatori umanitari provenienti da Paesi extracomunitari non può cancellare la nostra storia di organizzazione medica che nasce nel cuore di un continente percepito come tradizionalmente cristiano.
Non aiutano neppure le condotte di quelle agenzie governative internazionali e organizzazioni profit, che cercano di mascherare con progetti di cooperazione le proprie ambizioni neocolonialiste all’interno di un Paese e in quelli circostanti.
Vi sono, infine, conflitti in cui non è proprio possibile rimanere neutrali, quando quello che vediamo chiede di essere raccontato e denunciato.
Il genocidio del Ruanda e quello di Srebrenica sono due drammi che hanno segnato per sempre la nostra storia: sul campo ma impotenti. Abbiamo però dovuto pagare a caro prezzo, a volte accettando il silenzio, a volte abbandonando il terreno, anche in Sri Lanka, in Yemen, in Sud Sudan, in Niger, in Afghanistan, in Siria, in Somalia, a Gaza, in Etiopia.
Scrivere in un libro di questi dilemmi serve anche a questo: a spiegare e a capire quali siano i limiti accettabili del compromesso.
© riproduzione riservata