Diritti / Attualità
L’impegno delle etnobotaniche di Ca’ Foscari per supportare il popolo ucraino
Dallo scoppio della guerra, accademiche e ricercatrici dell’Università di Venezia che portano avanti progetti nel Paese invaso si sono mobilitate per supportare gli ucraini e le studentesse e gli studenti che sono a Venezia: “Ogni piccolo gesto conta”
“Ci sono le montagne in Ucraina?”. Giulia usa questa domanda per dimostrare la distanza geostorica e culturale che l’Italia ha con il Paese che dal 24 febbraio 2022 è sotto attacco da parte del regime russo di Vladimir Putin. Intervistiamo via Zoom Giulia Mattalia e Renata Soukand, etnobotaniche che lavorano per l’Università Ca’ Foscari di Venezia: si trovano nel loro ufficio, a Mestre (VE) e alle spalle hanno una mappa dell’Ucraina. È lì dal 2017, da quando hanno avviato il progetto di ricerca “Ethnobotany of divided generations in the context of centralization” (DiGe, unive.it/pag/33443), coordinato dalla professoressa Soukand e finanziato dall’European research council.
Dallo scoppio della guerra si sono mobilitate insieme ad altre colleghe per supportare il popolo ucraino e le studentesse e gli studenti che sono a Venezia. “Ti racconto una storia per capire -dice Renata-. Il primo titolo con cui avevo presentato il nostro progetto di ricerca, nel 2016, conteneva le parole ‘regime totalitario’”. Il progetto DiGe mira infatti a comprendere i modi in cui le conoscenze etnobotaniche delle minoranze etniche mutano quando un gruppo dominante cerca di uniformare o cancellare questi saperi e le pratiche connesse. “Ma quando sono andata in Bielorussia per chiedere una collaborazione, mi sono accorta della paura che c’era nel sentire anche solo nominare il totalitarismo e ho capito che, se avessi voluto lavorare in questi Paesi, non avrei potuto usare quelle parole. C’è ancora molta paura nei confronti del regime”.
Renata è nata in Estonia e da bambina ha vissuto tre anni in Ucraina -dove poi ha anche lavorato per alcuni mesi come etnobotanica- e altri tre in Russia. Conosce “la brutalità del regime russo, che abbiamo già visto in Cecenia, a Groznyj (la capitale, ndr), in Ossezia e nella stessa Ucraina, in Donbass e in Crimea. Per questo sappiamo che è necessario concentrare le forze su tutto ciò che è possibile fare per fermare questa guerra -dice-. E non ci può essere pace senza risposta: il regime di Putin risponde solo alla forza. È già successo in Bielorussia”. La questione centrale, come la chiama Renata, “è la domanda di libertà: un concetto che io stessa ho capito solo vivendo in Italia. Stiamo parlando della libertà di decidere cosa fare della propria vita: sotto un regime questo non è possibile, siamo schiave e schiavi dei suoi bisogni”.
Giulia sta facendo ricerca in Ucraina, in particolare nella regione transfrontaliera della Bukovina, che fino al 1917 era la parte più a Est dell’impero austro-ungarico, poi è diventata parte della Romania, fino all’arrivo dell’Unione Sovietica nel 1940, che l’ha divisa in due: il Nord sovietico e il Sud romeno. “La pandemia ha rallentato la ricerca in questi ultimi due anni -racconta- ma non ci aspettavamo un’escalation della violenza di questo genere. La Bukovina è un esempio di multiculturalità e pace”. C’è sempre stata una convivenza pacifica tra i romeni e la minoranza degli Uzuli, tradizionalmente pastori, che vivono sui Carpazi. “E il fatto che questi confini siano aperti e che oggi i romeni stiano aprendo le porte agli ucraini è la dimostrazione che non ci sono divisioni, ma una convivenza fondata sulla diversità e lo scambio. Se non conosci una cosa, non ti interessa o ti fa paura. Il rispetto reciproco si fonda sulla conoscenza”.
Domenica 27 febbraio Renata e il suo gruppo di ricerca di Ca’ Foscari hanno avuto il primo incontro con sette studenti ucraini; in pochi giorni il gruppo è cresciuto fino a 30 persone: “Non solo ucraini, ci sono anche italiani e persone di altre nazionalità. L’unica cosa che chiediamo per partecipare è la disponibilità a dare una mano”, spiega la professoressa. Questa settimana il gruppo si è già attivato nella raccolta di cibo e medicine per l’ospedale di Leopoli, nel fare informazione preparando i sottotitoli in italiano per i video ucraini e predisponendo un sito dove raccogliere le fonti di notizie indipendenti (come kyivindependent.com), curando una lista di libri in italiano sull’Ucraina e di autrici e autori locali, e aprendo un confronto con la comunità ucraina di Venezia. “La nostra proposta è quella di agire concretamente -aggiunge Giulia-. Come università e mondo della ricerca abbiamo il dove di informare, e crediamo che gli studenti siano una parte attiva della società”.
Tra di loro c’è Anastasia, 24 anni, arrivata a Venezia lo scorso settembre dopo la laurea alla University of Banking di Kyiv per frequentare a Ca’ Foscari il corso di laurea magistrale in “Global Development and Entrepreneurship”. “Sono arrivata desiderosa di studiare, non per scappare”, specifica guardando la videocamera da dietro gli occhiali con una lente azzurra e una gialla. Fuori dalla chiesa di Sant’Antonio a Marghera (VE) le chiedo se ha voglia di parlare, lei risponde: “Parlare? Sì, vorrei gridare!”. Oltre a studiare lavora a distanza per l’azienda Innovecs di Kyiv, occupandosi di comunicazione. È originaria di Ivano-Frankivs’k, nell’Ucraina dell’ovest, dove vivono ancora sua nonna e la zia. Ha vissuto otto anni a Mosca dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ma dal 2006 vive a Kyiv e per lavoro viaggia spesso tra l’Ucraina e l’Italia: sarebbe dovuta rientrare la prossima settimana per un evento della sua azienda. “Fino a pochi giorni fa la mia vita andava avanti normalmente, tra studio e lavoro, pianificando i viaggi in Ucraina -racconta-. Voglio dire che sapevamo che c’era qualcosa che stava per succedere, ma nessuno credeva che sarebbe successo. Tutti erano sicuri che non sarebbe accaduto nulla e quando eravamo nel panico percependo una ‘guerra potenziale’, il Governo ci ha suggerito di restare calmi e di restare nel Paese per non danneggiare l’economia. E ha funzionato: molti hanno smesso di preoccuparsi e nessuno credeva che la guerra sarebbe stata possibile”. Per queste ragioni anche i suoi genitori sono rimasti a Kyiv “fino all’ultimo momento: non volevano lasciare la casa che si erano costruiti con grandi sacrifici”. Ma in poco tempo si sono convinti del rischio che avrebbe comportato restare in città e hanno deciso di partire per Ivano-Frankivs’k, per riunire la famiglia. “Ho messo tutta la mia vita in una valigia”, le ha detto sua mamma quando ha lasciato la sua casa.
Anche nella parrocchia di Sant’Antonio si impacchettano beni essenziali: la comunità ucraina di Venezia li sta raccogliendo per inviarli in Ucraina. “Abbiamo una domanda: perché?”, dice Oksana, impegnata a organizzare gli scatoloni. È arrivata in Italia vent’anni fa: “Se avessimo una risposta forse sarebbe più facile capire”. Secondo Anastasia, uno slogan efficace per sensibilizzare su quello che sta succedendo può essere: “Pagate il vostro gas con le vite degli ucraini (You pay for your gas with Ukrainian lives). E lo possiamo usare in molti altri modi, ad esempio: ‘Pagate per la vostra vita tranquilla con le vite degli ucraini’. Intendo dire che tutti possono agire su un piano economico, per interrompere le relazioni con la Russia”. E non solo su quello economico: secondo Baiba Pruse, ricercatrice lettone che fa parte del progetto DiGe, ognuno può fare la sua parte: “Ogni piccolo gesto conta”, dice. Ogni mercoledì si svolgono i seminari DiGe, ma questa settimana arriva una mail di Baiba che comunica: “Purtroppo dobbiamo annullare questo incontro perché i nostri sforzi sono diretti verso l’Ucraina e speriamo che anche voi stiate facendo lo stesso”.
“Le parole che usiamo in questo discorso sono molto importanti -sottolinea Renata-. Non si tratta più di un conflitto: questo è un genocidio, in Ucraina, Bielorussia e anche in Russia, perché i soldati russi sono composti dai tanti gruppi etnici della minoranza e sono malnutriti e male attrezzati, non sanno dove vanno e non vogliono sparare, sono obbligati a farlo. E non è una guerra, ma una vendetta: stanno bombardando i quartieri dove abitano i civili. Dobbiamo diffondere un messaggio chiaro, che non sia solo la richiesta della pace, ma il sostegno della resistenza ucraina per fermare il regime russo. In questo momento l’Ucraina funziona da cuscinetto: se non fermiamo Putin lì, saremo tutti in una situazione molto pericolosa”.
Per contattare il gruppo di cui fanno parte Renata, Giulia e Baiba, si può scrivere a freedomua.it@gmail.com. Venerdì 11 marzo 2022, dalle 18.30 nella sede dell’associazione Spiazzi a Venezia (Calle del Pestrin, 3865), è in programma una serata di raccolta fondi per la comunità ucraina, con la proiezione del film ucraino-lituano “The Earth Is Blue as an Orange” (74’, 2020, sundance.org/projects/the-earth-is-blue-as-an-orange) della regista Iryna Tsilyk (1982, Kyiv), vincitore della categoria World Cinema Documentary al Sundance Film Festival 2020. Collaborano alla serata, oltre a Spiazzi, Tocia! Cucina e comunità, Ocean Space e Kinonauts. Per i dettagli: FB @spiazzi.venezia, IG @spiazzi_
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