Crisi climatica / Approfondimento
L’impatto degli eserciti e del settore militare sulla crisi climatica
Solo le difese di Stati Uniti e Regno Unito hanno emesso 430 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalenti dagli Accordi di Parigi del 2015 a oggi. Particolarmente negativi per l’ambiente sono la presenza delle loro 800 basi nel mondo, cui è collegata la presenza di Pfas, così come il continuo aumento delle spese militari
Gli eserciti e il settore della difesa sono tra i principali responsabili delle emissioni di gas climalteranti. Eppure negano di essere un problema, cercando di mostrarsi pronti a una transizione ecologica e proponendosi come parte della soluzione al cambiamento climatico. Su questi punti si concentra il rapporto “Less war, less warming”, pubblicato a novembre 2023 dai think tank Common wealth e Climate and community project, che lavorano rispettivamente per lo sviluppo di un’economia democratica e sostenibile e per l’adozione di politiche che mettano al centro la giustizia ambientale.
Il settore militare è responsabile infatti del 5,5% delle emissioni globali di gas serra, indica il rapporto, riprendendo un dato elaborato nel 2022 dall’organizzazione Scientists for global responsibility: per fare un confronto, l’aviazione civile si ferma al 2%. Alcuni Stati sono più coinvolti di altri e l’analisi guarda in particolare al ruolo di Stati Uniti e Regno Unito. A partire dagli accordi sul clima di Parigi del 2015, le difese dei due Paesi hanno emesso almeno 430 milioni di tonnellate equivalenti di anidride carbonica nell’atmosfera. E il Pentagono è la maggior fonte istituzionale di inquinamento nel mondo: se fosse uno Stato, sarebbe al quarantasettesimo posto per quantità di emissioni, davanti al Portogallo.
L’impatto climatico degli eserciti non si limita ai teatri di guerra, anzi: due terzi delle emissioni del settore derivano da operazioni di routine. A emettere anidride carbonica è soprattutto l’utilizzo di aerei e navi da guerra durante le esercitazioni oltre alla produzione di armamenti, che ha un’impronta ecologica significativa.
Il rapporto sottolinea inoltre i danni, non solo ambientali, dovuti alla presenza di oltre 800 basi militari statunitensi e britanniche nel mondo. “Portano alla distruzione di ecosistemi e alla perdita di biodiversità, causano inquinamento luminoso e acustico per la presenza di jet”, spiega Patrick Bigger, direttore della ricerca di Climate and community project e tra gli autori del rapporto. Alle basi è collegata spesso anche la presenza di Pfas, sostanze chimiche di sintesi dannose per la salute e in grado di contaminare l’ambiente per periodi molto lunghi a causa della loro elevata persistenza. “Vengono usati nelle esercitazioni, per arginare gli incendi dovuti all’utilizzo di bombe o munizioni -sottolinea Khem Rogaly, ricercatore di Common wealth-. Ma possono anche colpire l’approvvigionamento idrico delle comunità locali”.
Le affermazioni di Rogaly sono confermate da uno studio condotto dal dipartimento della Difesa americano e pubblicato lo scorso ottobre. L’ente governativo ha riconosciuto che, nei dintorni di almeno 245 basi sul territorio americano, le attività militari avrebbero portato a contaminazioni da Pfas delle fonti d’acqua. Tuttavia, l’entità del problema potrebbe essere ancora maggiore, in quanto centinaia di altri casi sospetti non sono stati per ora verificati. In Europa, per il momento, non sono stati condotti studi approfonditi sulla correlazione tra la presenza di basi militari e quella di Pfas.
“Less war, less warming” evidenzia anche come il settore militare abbia importanti responsabilità storiche nello sviluppo dell’attuale economia fossile, avendo contribuito in maniera determinante a rendere cruciale l’approvvigionamento di carbone prima e di petrolio poi. E indica come, nonostante i proclami, oggi non abbia davvero la possibilità di slegarsi da questi combustibili e diventare “green”. “Non esistono opzioni di carburanti a zero emissioni per navi e aerei da guerra ed è improbabile che la situazione cambi -osserva Rogaly-. Anche se fossero disponibili, gli equipaggiamenti militari sarebbero molto costosi e quelli attuali verranno quindi usati per decenni”.
L’impatto sull’ambiente della difesa è semmai destinato a crescere, come evidenzia un secondo rapporto, “Climate Crossfire”, curato dalle organizzazioni Transnational institute (Tni), Stop wapenhandel e Tipping point North South. Pubblicato nell’ottobre 2023, il documento denuncia il continuo aumento delle spese militari e osserva con preoccupazione l’impegno sottoscritto dai Paesi della Nato di spendere almeno il 2% del proprio Prodotto interno lordo (Pil) nella difesa.
L’obiettivo c’è dal 2014 ma a lungo i membri dell’Alleanza atlantica sono stati restii a centrarlo. La tendenza è però cambiata con l’invasione russa dell’Ucraina: se nel 2021 solo sei Stati spendevano quanto richiesto, oggi un terzo dei Paesi Nato rispetta l’impegno e la gran parte degli altri vi si sta avvicinando. Il target non riflette però un’esigenza reale: è stato pensato prima che la Russia venisse considerata una minaccia, indica il rapporto, e inoltre le spese militari della Nato sono sedici volte maggiori rispetto a quelle di Mosca.
L’aumento dei fondi destinati alla difesa ha un impatto diretto sull’ambiente, con le emissioni degli eserciti Nato che sono passate da 196 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente nel 2021 a 226 milioni nel 2023. Ma non solo: le risorse che arrivano al settore militare non vengono invece utilizzate per il contrasto al cambiamento climatico. Nick Buxton, membro di Tni e tra gli autori del rapporto, evidenzia il contrasto tra l’incapacità degli Stati di tenere fede agli impegni riguardanti l’ambiente e la velocità con cui le spese militari stanno crescendo, senza tra l’altro che esista un vero e proprio dibattito pubblico a riguardo. “Non è solo una questione di quanto spendere, ma anche quando. Secondo l’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), abbiamo sette anni per ridurre le emissioni del 43%. Per questo, è necessario che adesso ci sia un’enorme attenzione alla questione climatica”.
La crescita delle spese militari non rappresenta soltanto una minaccia per l’ambiente, ma rischia anche di plasmare le strategie di adattamento che vengono impiegate. “Stiamo investendo nella difesa come elemento chiave per rispondere alla crisi climatica -osserva Buxton-. Che si tratti di disastri umanitari, conflitti o qualsiasi altra cosa, stiamo sviluppando reazioni basate sugli eserciti e sulla sicurezza, invece che sulla diplomazia e sulla collaborazione per costruire pace e giustizia”.
Il fatto che una generale militarizzazione e un approccio securitario siano visti come risposte efficaci al cambiamento climatico riflette il potere detenuto dalla difesa e la sua capacità di imporre la propria visione. “Il settore militare sta cercando di farsi vedere come una forza benigna nell’ambito della crisi climatica, invece che nel ruolo del ‘cattivo’ che effettivamente ricopre”, insiste Patrick Bigger. E in questo le basi militari hanno un’importanza cruciale, nonostante siano dannose per l’ambiente. “La loro esistenza si spiega con il ruolo di poliziotti globali che soprattutto gli Stati Uniti vedono per se stessi. Ma viene giustificata anche con il fatto che le basi possano fornire assistenza umanitaria in caso di disastri naturali”.
Nonostante la retorica, tuttavia, l’interventismo militare non ha migliorato la sicurezza delle persone negli ultimi decenni. E la diminuzione dell’impatto ambientale degli eserciti può avvenire soltanto con la chiusura delle basi, non con un loro utilizzo positivo. Così come non può avvenire con la decarbonizzazione degli eserciti e dei loro equipaggiamenti, conclude Rogaly: “Davvero, si tratta soltanto di ridurre le operazioni”.
© riproduzione riservata