Cultura e scienza / Opinioni
L’esortazione di Tolstoj davanti alla guerra
Invece di identificarci, solo a parole, con chi combatte dobbiamo riflettere su noi stessi e sul nostro rapporto con il conflitto. E ricrederci. La rubrica di Tomaso Montanari
“Ricredetevi!”. È tutto nel titolo il significato di questo piccolo capolavoro dell’autore di “Guerra e pace” appena ripubblicato da Ega-Edizioni Gruppo Abele. Lev Tolstoj lo scrisse contro la guerra russo-giapponese, che divampò tra il gennaio 1904 e il settembre del 1905: si combattè per il controllo della Manciuria e della Corea, oltre che per quello dell’importante sbocco sul Pacifico di Port Arthur (oggi in Cina) e vide la vittoria del Giappone. I morti furono complessivamente circa 200mila.
La scelta di riproporre una traduzione d’epoca vuole sottolineare il carattere “remoto” di questo testo, capace di aiutarci a costruire un futuro diverso dal presente senza alternative che stiamo vivendo. Capace di aiutarci a uscire dalla nostra paralisi collettiva. In quel titolo è anche il senso del ripubblicarlo oggi, dopo oltre cento anni e durante un’altra guerra russa, quella di aggressione nazionalista e imperialista con la quale il presidente Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina.
In una delle prime versioni del testo, il titolo era accompagnato, perché se ne intendesse meglio il messaggio, dal suo archetipo greco (“Metanoite!”) e da una citazione dal Vangelo di Luca (13,3) in cui quell’imperativo è usato in modo perentorio: “Se non vi ricrederete, perirete tutti!”. Ricredersi, ravvedersi, convertirsi: la metanoia è un “profondo mutamento nel modo di pensare, di sentire, di giudicare le cose” (così il dizionario Treccani).
Ma su cos’è che Tolstoj ci supplica di ricrederci? “Ho voglia di scrivere -annotava nel diario iniziando questo testo- del fatto che quando avviene una cosa tanto terribile, com’è appunto la guerra, tutti fanno centinaia di considerazioni sui più svariati significati ed effetti della guerra, ma nessuno fa alcuna considerazione su sé medesimo: su quel che lui, io, dobbiamo fare in rapporto alla guerra”. È impressionante l’aderenza di queste parole a quanto stiamo vivendo oggi, nel 2022.
Dimostrando una straordinaria mancanza sia di lucidità sia di senso morale, la grande maggioranza di coloro che partecipano al discorso pubblico italiano non si interroga su quel che dovremmo pensare e fare noi, che siamo (per ora) al sicuro dalla guerra, ma tende invece a identificarsi (naturalmente solo a parole) con chi combatte in Ucraina. Questo transfert ha due conseguenze, pessime: la prima è che l’opinione pubblica occidentale viene calata nel ruolo di chi combatte, non di chi potrebbe fermare la guerra; la seconda è che il veleno osceno della guerra entra nei nostri pensieri e nei nostri discorsi.
Si accusa di pavidità chi non cede all’alternativa diabolica tra perdere la vita o perdere la libertà: quando proprio noi potremmo e dovremmo salvare gli ucraini da un vicolo cieco in cui comunque si è sconfitti. È accusato di intelligenza col nemico chi prova a dire che “si può e si deve discutere sull’opportunità e sulla moralità per l’Occidente -l’impero americano- di combattere contro i russi fino all’ultimo ucraino” (Lucio Caracciolo). E così noi -noi che potremmo invece costringere i nostri governi “democratici” a usare ogni mezzo per portare Putin al tavolo delle trattative- siamo fieri di armare gli aggrediti e contemporaneamente finanziamo (con i soldi del gas) l’esercito dell’aggressore: dunque scommettiamo sul prolungamento del conflitto, assumendoci una parte di responsabilità nella sua sempre più mostruosa scia di morti, feriti, distruzioni. Con la possibilità concreta che tutto questo trascini il mondo intero nell’olocausto nucleare.
Tomaso Montanari è storico dell’arte e saggista. Dal 2021 è rettore presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra
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