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Diritti / Opinioni

Le violenze di Verona e l’inquietante regolarità degli abusi

© Andrea Ferrario, Unsplash

È arrivato il momento di una seria indagine sui nostri corpi di polizia, per non fare di questo episodio l’ennesima occasione mancata. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci

Tratto da Altreconomia 261 — Luglio/Agosto 2023

Verona chiama Piacenza, San Gimignano evoca Santa Maria Capua Vetere: la geografia degli abusi di potere e della pratica della tortura è in continua evoluzione, come una mappa alla quale vanno aggiunte, di volta in volta, nuove bandierine. Promemoria di una cronaca degli orrori che pare interessare poco l’opinione pubblica e soprattutto chi siede nelle stanze del potere. Certo, la clamorosa inchiesta di Verona, coi cinque poliziotti arrestati per una serie di reati che include la tortura, ha conquistato un suo spazio nelle cronache, ma non sembra avere scosso più di tanto. Non ha suscitato, neanche stavolta, un serio dibattito sullo stato di salute della democrazia nelle nostre forze di polizia; non è partita alcuna azione di reale approfondimento né giornalistico, né tanto meno politico e professionale.

Eppure di questo dovremmo occuparci, se non vogliamo registrare ogni nuovo episodio come una sorta di fatalità. Compiacendosi magari, com’è possibile fare stavolta, per l’inedito attivismo mostrato dalla questura veronese, protagonista positiva dell’inchiesta al proprio interno, in leale collaborazione coi magistrati inquirenti. C’è da compiacersi, è vero, perché siamo abituati a tutt’altre condotte: quegli ostruzionismi, quei negazionismi, quegli ostacoli all’azione inquirente di cui è ricca la storia giudiziaria delle nostre polizie. Clamorose, in questo senso, le difficili inchieste della procura genovese all’indomani del tragico G8 del 2001.

Ma si tratta, in verità, di una modesta ragione di soddisfazione: che l’istituzione polizia collabori con l’istituzione magistratura dovrebbe essere ovvio, almeno in una democrazia che funzioni decentemente. Così non è nel caso italiano, evidentemente. Non dobbiamo insomma perdere di vista il cuore della vicenda: i casi di abusi di potere, di violenze gratuite di tenore razzista e discriminatorio e perfino di tortura si ripetono con inquietante regolarità. Sarebbe perciò il momento di indagare seriamente, anche fuori dalle aule giudiziarie, sui nostri corpi di polizia.

Sarebbe l’ora di conoscere meglio e da vicino le perverse subculture che vi albergano (perché tanti episodi di odio razziale, di suprematismo? Perché tanti richiami al retaggio fascista?); sarebbe il momento di capire perché le tecniche di tortura siano così conosciute e diffuse fra gli agenti (c’è qualcuno che le insegna?); sarebbe il tempo di introdurre nuovi strumenti di verifica, garanzia e controllo: dai codici identificativi, all’osservatorio sui reati compiuti dagli agenti, all’istituzione di un organismo indipendente di tutela dei diritti in grado di aprire un varco di dialogo fra gli apparati e la società civile. Altre idee e proposte potrebbero venire dall’apertura di un percorso che somigli a degli “stati generali” delle polizie italiane. Sarebbe l’occasione, anche per chi lavora in quelle strutture, di prendere la parola e avviare una stagione nuova meno corporativa e claustrofobica, all’insegna dell’apertura e della trasparenza.

Sono cinque gli agenti della questura di Verona messi agli arresti domiciliari con accuse di tortura, lesioni aggravate, peculato, rifiuto e omissione di atti di ufficio e falso ideologico in atto pubblico.

Oltre quarant’anni fa, un democratico movimento d’opinione interno alla polizia di stato rese possibile la riforma che smilitarizzò finalmente il corpo. Nel tragico luglio genovese del 2001 capimmo che lo spirito stesso della riforma, nel corso di un ventennio, era ormai evaporato; sono passati altri vent’anni e non possiamo aspettare oltre per riaprire quel discorso. Altrimenti dovremo rassegnarci ad aggiungere altre tristi bandierine sulla mappa nazionale degli orrori di polizia, in un’avvilente sequenza di occasioni mancate.

Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”.

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