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A quando gli “stati generali” -trasparenti e democratici- delle nostre polizie?

Non c’è da stupirsi di fronte al brutale pestaggio degli agenti della polizia locale di Milano o agli arresti del personale della questura di Verona: l’abuso della forza, comportamenti suprematisti e persino la tortura sono più che ricorrenti nella storia recente delle divise. Genova 2001 ha insegnato poco, osserva Lorenzo Guadagnucci

© Max Fleischmann - Unsplash

Nell’arco di pochi giorni abbiamo avuto il pestaggio di una donna, a Milano, da parte di agenti della polizia locale e gli arresti (ai domiciliari) di cinque poliziotti della questura di Verona accusati di tortura. A unire le due ben diverse vicende, a prima vista, c’è la particolare condizione delle malcapitate vittime: una donna transessuale nel primo caso, tre cittadini stranieri su quattro nel secondo (“africani”, si legge nelle cronache, senza che sia specificato, chissà perché, o forse sappiamo fin troppo bene perché, la nazionalità). Di tutto ciò si parla, nel discorso pubblico -a dire il vero fiaccamente- secondo uno schema consolidato fino alla noia: prima lo stupore misto a indignazione, poi domande generalissime sulle condizioni di lavoro nelle forze dell’ordine, infine la promessa che tutto sarà chiarito, fermo restando -si specifica- la generale fiducia nelle polizie.

In verità non c’è granché da stupirsi di fronte a simili notizie, visto che l’abuso della forza, comportamenti machisti e suprematisti e perfino la pratica della tortura sono più che ricorrenti nella storia recente delle nostre forze dell’ordine e semmai ci sarebbe da chiedersi quante violenze, quante sopraffazioni non arrivino a diventare notizia, quante torture restino sconosciute alle cronache.

È lecito nutrire questi dubbi, non solo perché certe notizie diventano tali per casi fortuiti -qualcuno che riprende un pestaggio da un balcone come accaduto l’altro giorno a Milano; telecamere rimaste accese e hard disk non cancellati per dimenticanza o eccesso di sicurezza dell’impunità, come nel caso delle torture nel 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e così via- ma anche perché veniamo da oltre un ventennio di incuria. Incuria per lo stato di salute democratica, ma anche professionale e umana, delle nostre forze dell’ordine.

Oltre vent’anni fa, quando al G8 di Genova violenze, falsi, menzogne e torture esplosero con una forza dirompente, scandalizzando -quella volta sì- non solo l’Italia ma tutto il mondo, si decise scelleratamente di non fare ciò che era dovuto, ossia un’operazione di chiarezza e di verifica interna, attraverso una seria assunzione di responsabilità da parte dei vertici dello Stato.

Era il momento di convocare degli “stati generali” delle forze dell’ordine, di indagare sulla formazione ricevuta dagli agenti (perché tanta violenza su persone inermi? Perché tanta conoscenza delle moderne tecniche di torture?), sulle subculture fasciste ancora esistenti nel corpo degli apparati (provate dai cori, dalle frasi di scherno, perfino dalle suonerie dei cellulari esibite da molti, troppi agenti), sull’attitudine a mentire e sull’insofferenza per le verifiche esterne, inclusa quella della magistratura, mostrate dalle varie catene di comando. Si è scelta la via opposta: la chiusura corporativa, la minimizzazione dei fatti, lo scarico di responsabilità, l’ostacolo alla magistratura e si è aggiunto il carico -da parte del ceto politico- della strategia di conferma dei vertici in servizio nel fatidico 2001 e perfino di protezione e promozione dei dirigenti prima indagati, poi imputati e infine condannati (è la storia dell’emblematico caso Diaz).

La magistratura, indagando su Genova G8, ha ottenuto alcuni importanti risultati, pur agendo in condizioni molto difficili, ma si è occupata solo di una parte delle violenze e dei falsi e il fatto più grave avvenuto a Genova, l’uccisione di Carlo Giuliani, è stato archiviato davanti al giudice per le indagini preliminari, senza dibattimento, lasciando molti dubbi sulla reale dinamica e sulle effettive responsabilità. Ferite che restano aperte.

Altri fatti sono avvenuti negli anni seguenti -torture in caserme e carceri, persone decedute durante il fermo- ma non è bastato per cambiare la postura delle nostre forze dell’ordine, che restano refrattarie alla trasparenza, incapaci di guardare dentro sé stesse e rendere conto alla cittadinanza del proprio essere. Eppure sappiamo che lo stato di salute generale non è buono: lo provano le notizie di cui stiamo parlando ma anche le poche notizie che filtrano di volta in volta sull’alto tasso di suicidi fra gli agenti, specie quelli penitenziari.

A Verona, e questa è una buona notizia, l’indagine sulle presunte torture è stata condotta dagli stessi colleghi degli agenti indagati, ma i vertici istituzionali e politici avranno voglia di dare seguito a questa “buona pratica” e di compiere una grande, seria, profonda operazione-verità sulle nostre forze dell’ordine? A quando gli “stati generali” -trasparenti, democratici, partecipativi- delle nostre polizie?

Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”

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