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Le pratiche agroecologiche di “Triticum Dolomiti” ridanno ossigeno alla Valbelluna

Mirco D'Incà e Johannes Keintzel © Lucia Michelini

Mirco D’Incà e Johannes Keintzel, agricoltori per passione, hanno avviato nel bellunese un progetto per coltivare cereali antichi e resilienti ai cambiamenti climatici. Obiettivo: fornire cibo sano alla comunità ma anche modellare le filiere, il territorio e il suolo in modo autenticamente sostenibile

Due giovani della Valbelluna hanno avviato un progetto per coltivare cereali antichi e resistenti ai cambiamenti climatici, in accordo con i principi dell’agroecologia, contando sul supporto della comunità locale. Mirco D’Incà e Johannes Keintzel sono diventati agricoltori per passione, curiosità e per il rispetto che nutrono nei confronti della terra.

“Abbiamo iniziato partendo da una manciata di semi ottenuti in occasione di uno scambio con altri coltivatori, molti di questi grani erano originariamente conservati presso la Banca del germoplasma dell’Istituto Strampelli di Lonigo (VI), che qualche anno fa aveva intrapreso un’attività di recupero delle antiche varietà di cereali del Veneto -spiega Keintzel ad Altreconomia-. Nel tempo abbiamo sempre usato questa mescolanza, raccogliendo e autoproducendo le sementi sulla base degli insegnamenti relativi ai miscugli evolutivi del professor Salvatore Ceccarelli. Oggi usiamo centottanta varietà di frumento, evolute e auto-selezionate nel corso di cinque anni di coltivazione e sperimentazione in campo, cosa diversa dall’agricoltura tradizionale dove si preferisce la mono-varietà”.

Mirco e Johannes producono cerali locali nelle valli delle Dolomiti bellunesi, coltivando semi non manipolati o trasformati per la produzione su larga scala. Un po’ alla volta vorrebbero creare delle filiere cerealicole che possano fornire cibo sano ai consumatori, ma anche modellare il territorio in modo sostenibile e in linea con le esigenze della flora e della fauna locali.

Ed è partendo da questo obiettivo che hanno avviato il progetto “Triticum Dolomiti. Dal seme al pane, partendo dal suolo”, credendo nella possibilità di creare economie circolari e virtuose, attraverso l’uso di semi che hanno evoluto un patrimonio genetico legato alle particolari condizioni pedoclimatiche della Valbelluna (il progetto è descritto nel libro di Laura Filios e Luca Martinelli, Pane Buono, Altreconomia, 2022).

Il frumento del miscuglio usato da Triticum Dolomiti

Il miscuglio di grani tradizionali testato finora ha sviluppato in poco tempo delle caratteristiche che gli consentono di adattarsi velocemente al contesto montano bellunese e a un clima non più stabile, e questo grazie all’importante diversità varietale, diversità facilmente percepibile al momento del raccolto, quando le spighe diventano un mosaico di forme e di colori.

“Vogliamo coltivare senza stravolgere il territorio ma anzi proteggendolo e valorizzandolo, provando anche a ri-localizzare i saperi che in questi ultimi decenni sono stati persi o in buona parte abbandonati”, dice Mirco D’Incà. Anche per questo i due agricoltori hanno da poco acquistato un macchinario che permette di seminare senza dover arare e fresare il campo, in accordo con l’agricoltura no tillage, e preservando il più possibile la struttura del suolo. “Si tratta di una seminatrice su sodo che ci darà la possibilità di interrare i semi alla giusta profondità attraverso piccole e mirate incisioni nel terreno, usando molto meno energia rispetto alle lavorazioni classiche e ottenendo al tempo stesso rese elevate”.

L’acquisto di questa seminatrice è stato possibile grazie a una campagna di crowdfunding, che ha mostrato come la comunità abbia creduto nel progetto e in un’agricoltura diversa. “Non è stato semplice trovare questa macchina, l’abbiamo fatta arrivare dalla Toscana -ricorda D’Incà con un sorriso stampato sul volto- ed è l’unica presente stabilmente in provincia, che non sia quindi di un contoterzista esterno, cosa che ci rende orgogliosi da un lato ma che ci fa anche pensare che dovrebbero già essere in molti a usarla. È un macchinario che esiste da tanti anni eppure sembra quasi un’innovazione tecnologica”.

Nei terreni coltivati da Mirco e Johannes tutto è studiato al minimo dettaglio per massimizzare il benessere vegetale e non applicare una sola goccia di prodotto fitosanitario. Nel caso di un terreno a Cart di Feltre (Belluno), la seminatrice su sodo è stata testata a febbraio di quest’anno con dei semi di pisello interrati in un campo già coltivato a frumento. “Il fatto di piantare una leguminosa in un terreno dove sono spuntate le prime foglie del cereale permette di introdurre naturalmente l’azoto nel suolo, arricchendolo -continua D’Incà riferendosi al processo di azotofissazione effettuato dalle leguminose, che sequestrano l’azoto atmosferico e lo fissano nel suolo-. Infatti, grazie alla seminatrice su sodo si può seminare tutto l’anno, sia sopra una coltura già esistente, sia sopra alle piante che faranno da sovescio (colture piantate appositamente per essere poi interrate e rendere così i suoli più fertili, ndr)”.

La combinazione di semine autunnali con quelle primaverili, consociando leguminose e cereali, sta consentendo ai grani di diventare molto resistenti a malattie e funghi. “La maggior resa per ettaro deriva dalle mescolanze, quindi dall’insieme delle due colture, quasi riproducendo in campo la combinazione migliore dell’alimentazione umana, cereali e leguminose. In questo modo si evita di apportare fertilizzanti chimici perché si favorisce il metabolismo dei microrganismi edafici che lavorano al nostro posto, stoccando il carbonio nel terreno. È questo il ragionamento più importante che dovrebbe fare l’agricoltura oggi: cercare pratiche sostenibili che permettano di produrre in modo sufficiente e, al tempo stesso, anche di migliorare la qualità del suolo”, sottolinea Keintzel.

Diversamente dalla Pianura Padana, dove l’agricoltura “convenzionale” ha eroso così tanto i terreni che il contenuto di carbonio organico raggiunge sì e no l’1%, con conseguente rischio desertificazione, attraverso le pratiche agroecologiche seguite da Mirco e Johannes, invece, la quota di sostanza organica aumenta annualmente, migliorando e rigenerando la salute del suolo.

Progetti come quello di “Triticum Dolomiti” rappresentano un potenziale enorme per il territorio locale, considerato sia nella sua componente ambientale sia sociale. Infatti, nonostante la storica vocazione agricola del bellunese, la provincia fa i conti da decenni con un preoccupante spopolamento giovanile, già descritto negli anni cinquanta da Tina Merlin, giornalista, scrittrice e partigiana. “Le possibilità di occupazione che esisterebbero nella nostra provincia -scrisse ne ‘La rabbia e la speranza‘-, se finalmente chi è al potere si decidesse a creare le condizioni affinché la nostra provincia diventi terra di lavoro e di rendimento, con vantaggio non solo dei suoi abitanti, ma pure della nazione e della sua economia”. Moniti non ascoltati del tutto, tant’è che i dati più recenti mostrano che l’esodo è ancora in corso e dai 210mila abitanti del 2011 si è passati oggi a circa 197mila.

Idee e azioni come quelle di Mirco e Johannes possono fare da volano, facilitando l’avvio di filiere agroalimentari autenticamente sostenibili. “Ci auguriamo di creare economie locali, con la consapevolezza che se si rispetta la terra, lei ti ripaga. E tanto. Nell’ultimo secolo abbiamo visto e vissuto un grande disinteresse verso questa terra che, inevitabilmente e continuamente, dà da mangiare a tutti noi -conclude Keintzel-. Dobbiamo riuscire a restituire il giusto valore a ciò che si produce, cambiando il modo con il quale si guarda l’agricoltura e valorizzando il lavoro dei coltivatori”.

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