Diritti / Opinioni
Le gambe deboli del Sud Sudan
A sei anni dall’indipendenza dal Sudan, lo Stato africano è precipitato di nuovo in una crisi umanitaria. Tra conflitti etnici, epidemie e campi profughi. “Il volo a pedali”, di Luigi Montagnini
Viaggiare è un privilegio che mi aiuta a interpretare la realtà. Quando, però, la storia di un Paese che ho visitato prende un verso drammatico, capisco quanto poco avessi colto.
Dopo un pluridecennale conflitto con il nord del Paese, nel 2011 il Sud del Sudan ha ottenuto l’indipendenza dando vita a un nuovo Stato, omogeneo, almeno nelle aspettative, per cultura e ambizioni. In realtà le etnie che lo compongono non vanno d’accordo e questo mi era già chiaro nel 2008, quando ho lavorato a Bor, nello stato del Jonglei. Quello che non mi aspettavo è che nel 2013 la rivalità politica tra il presidente del Sud Sudan Kiir, appartenente all’etnia Dinka, e il suo vice Machar, un Nuer, potesse riprecipitare il Paese nel caos.
L’accordo di pace siglato nel 2015, non ha potuto nulla. La popolazione civile, soprattutto donne e bambini, vive costantemente sotto minaccia. Su 11 milioni di abitanti, quasi 2,3 milioni hanno dovuto abbandonare le loro case e, di questi, 1,3 milioni hanno cercato rifugio all’estero. Quasi 4 milioni di persone sono considerati a costante rischio di morte per fame e vivono in zone difficilmente accessibili anche dalle organizzazioni umanitarie.
Centinaia di migliaia di persone sono prive di assistenza medica e negli Stati sudsusanesi di Jonglei, Unity e Upper Nile si sono anche registrati attacchi alle strutture sanitarie esistenti. Nel 2015 si è verificata nel Paese un’epidemia di malaria devastante, resa ancora più drammatica dalla scarsità degli stock di farmaci essenziali nelle strutture sanitarie governative del Paese: solo la presenza di organizzazioni umanitarie ha permesso di rispondere efficacemente ai picchi di malattia. Nei siti identificati per fornire protezione alla popolazione civile (PoC), il numero delle persone registrate è aumentato in modo drammatico: nel 2015 nel PoC di Bentiu, nel nord dello Stato di Unity, le presenze sono aumentate da 45mila a 100mila e per assistere tutte queste persone c’è un solo ospedale.
Le scarse condizioni di igiene sono il problema principale nei campi profughi: la gente è costretta a defecare all’aperto, fuori dalle proprie tende e tutti, i bambini per primi, sono esposti al rischio di epidemie di colera e di altre malattie intestinali. Centri per il trattamento del colera sono stati aperti a Bor e Juba e sono state condotte vaste campagne di vaccinazione. Nel campo di Yida, nello Stato di Unity, che per oltre quattro anni ha raccolto rifugiati e che nel 2016 accoglieva 60mila persone, sono scoppiate epidemie di morbillo, malaria e meningite. Nel PoC di Malakal si è passati da 21mila a 48mila presenze, costringendo molti a vivere in condizioni di sovraffollamento e precarietà. Nello Stato di Upper Nile, ricco di petrolio, il campo profughi di Doro accoglie 50mila persone provenienti dalla regione del Blue Nile e della contea di Maban.
Molte famiglie hanno attraversato la frontiera con il Sudan, fino a pochi anni fa acerrimo nemico, e hanno trovato rifugio nello stato del White Nile: qui sei campi rifugiati raccolgono in tutto più di 80mila persone, molte delle quali malnutrite.
L’immagine che più ricordo della gente del Sud Sudan sono le loro gambe, asciutte come le vacche dalle corna lunghissime che vagano indisturbate per le strade. Gliele ha donate la natura. Sono gambe in continuo movimento. Pensavo che avrebbero riportato i sudsudanesi a casa, alle loro terre. Invece no, sono gambe destinate, ancora una volta, a farli fuggire dalla violenza.
Luigi Montagnini è un medico anestesista-rianimatore. Dopo aver vissuto a Varese e Londra, oggi è a Genova, dove lavora presso l’Istituto Gaslini. Da diversi anni collabora con Medici Senza Frontiere.
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