Crisi climatica / Intervista
“Le corporation tengono in scacco i governi. Serve riformare il sistema”
Secondo David Boyd, ex Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani e l’ambiente, gli arbitrati internazionali (Isds) sono uno dei principali ostacoli alla decarbonizzazione: gli Stati rischiano cause miliardarie. L’abbiamo intervistato
Quando gli viene chiesto che cosa non dimenticherà mai dei suoi sei anni come Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani e l’ambiente, David Boyd non riesce a trattenere la commozione. “Ho incontrato la madre di Ella Kissi-Debrah, una splendida bambina, che è stata la prima persona al mondo per cui l’inquinamento è stato riconosciuto come causa di morte dai medici legali.
Aveva nove anni e viveva a Londra -racconta ad Altreconomia col groppo in gola-. L’hanno portata in ospedale 28 volte, e ognuna di queste ha coinciso con un picco nella presenza di ossido di azoto nell’aria. Alla ventinovesima non sono riusciti a rianimarla”.
Professore associato di Diritto, politiche e sostenibilità all’Università della British Columbia, Boyd ha terminato il suo incarico presso le Nazioni Unite a fine aprile, tornando a una più tranquilla vita accademica nel Canada occidentale. Intervistato da Altreconomia, non nasconde la durezza e la gravità delle situazioni che ha incontrato nei suoi viaggi, documentando quella che definisce “un’emergenza planetaria senza precedenti, con la crisi climatica e l’inquinamento che uccidono più di nove milioni di persone all’anno”. Ma ha anche ben chiaro quale sia la maggiore difficoltà ad attuare le politiche necessarie ad affrontarla.
Professor Boyd, a oggi qual è il principale ostacolo al diritto di godere di un ambiente sano e sicuro?
DB Si tratta proprio dell’economia globale, basata sullo sfruttamento sia delle persone sia della natura. Finché non riformiamo questo sistema sarà difficile se non impossibile riconoscere pienamente non solo il diritto a un ambiente sano, ma l’intero spettro dei diritti umani. So che questo suona come una critica anticapitalista, ma io non lo sono. Penso semplicemente che un sistema in cui le aziende sono in grado di esternalizzare sulle casse pubbliche decine di migliaia di miliardi di dollari di conseguenze negative in termini ambientali e sanitari sia un sistema che ha bisogno di riforme.
Sono 1.332 i casi di Isds di cui è a conoscenza la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo sviluppo (Unctad). Poiché questi arbitrati vengono gestiti in maniera segreta, il numero è probabilmente al ribasso. Nel 2023 sono stati avviate 60 cause
Che cosa intende per esternalizzare questi costi?
DB L’esempio più evidente è quanto accade con l’industria fossile. Quando petrolio, gas o carbone vengono estratti o bruciati, si genera un grave inquinamento atmosferico che ha impatti molto negativi sulla salute. Costi sanitari che non sono coperti dalle aziende ma che ricadono sul pubblico in generale. Sappiamo anche che i combustibili fossili sono la causa principale della crisi climatica, che costa ogni anno all’economia globale migliaia di miliardi di dollari. I costi sono agghiaccianti: l’inquinamento dell’aria comporta al mondo 8.100 miliardi all’anno di spesa per i danni alla salute e all’ambiente. Un nuovo studio dell’Istituto per la ricerca sul cambiamento climatico di Potsdam, in Germania, ha stimato che il suo impatto sull’agricoltura, le infrastrutture, la produttività e la salute può arrivare a 38mila miliardi di dollari all’anno fino al 2050.
Nel suo ultimo rapporto ha sottolineato come i Principi guida o i Codici di condotta volontari e non legalmente vincolanti si siano rivelati finora fallimentari nel cambiare i comportamenti delle aziende.
DB I Codici di condotta volontari sono stati progettati per fallire. Sappiamo da decenni che il modo migliore per ottenere dei progressi ambientali non è attraverso approcci volontari, ma con una legislazione rigorosa. Gli incredibili passi in avanti compiuti da Paesi come Stati Uniti o Regno Unito nella riduzione dell’inquinamento atmosferico sono conseguenza di normative che hanno imposto cambiamenti tecnologici e costretto l’industria a installare convertitori catalitici sulle automobili, scrubbers nelle centrali a carbone o a convertirsi al carbone con basso contenuto di zolfo. Vent’anni fa, però, non c’era la volontà politica di imporre un quadro giuridico vincolante. Per questo le Nazioni Unite hanno elaborato i Principi guida per le imprese sui diritti umani. Oggi possiamo affermare chiaramente che non hanno spostato l’ago della bilancia.
Vede qualche passo in avanti significativo nell’adozione di normative ambientali ambiziose?
DB Diversi. In Europa, ad esempio, la Francia ha inserito il diritto a un ambiente sano in un capitolo della propria Costituzione nel 2005. Da quel momento è passata dall’avere una posizione anonima all’essere una guida globale. È stato il primo Paese a vietare il fracking e l’uso di pesticidi sui terreni pubblici, il primo Stato europeo a vietare l’esportazione di pesticidi non utilizzati nell’Unione europea, una pratica ancora in uso in altri Paesi del Nord Europa.
“Gli arbitrati internazionali stanno costringendo i governi a pagare alle aziende fossili miliardi che potrebbero essere utilizzati per combattere la crisi climatica”
Pensa che l’approvazione di regolamenti sulla due diligence, che chiede alle società private di controllare le proprie catene di fornitura per verificare la presenza di pratiche scorrette, sia un passo in questa direzione?
DB La nuova ondata di leggi sulla due diligence iniziata in Paesi europei come Francia, Paesi Bassi, Germania, inclusa la recente direttiva dell’Unione europea, è uno sviluppo molto promettente. Al momento, la normalità è che le aziende del Nord del mondo adottino altrove pratiche lavorative e ambientali che non sarebbero lecite o etiche nel loro Paese.
Durante il suo periodo come Relatore ha anche denunciato come gli arbitrati internazionali -Investors state dispute settlements (Isds)- siano un ostacolo all’adozione di provvedimenti in grado di affrontare la crisi ambientale. Secondo questa procedura, un’azienda straniera può fare causa a un Paese in cui ha realizzato un investimento, andando a giudizio non da un tribunale nazionale, ma presso un arbitro terzo. A distinguersi in queste azioni sono state le industrie fossili e minerarie, che avrebbero già ottenuto più di cento miliardi di dollari come risarcimenti.
DB Questi casi di arbitrato stanno costringendo i governi a pagare miliardi e miliardi alle società dei combustibili fossili. Si tratta di una spesa che dovrebbe andare a contrastare la crisi climatica e non a riempire le tasche di quelle aziende che hanno fatto una fortuna creandola. Penso al caso dei Paesi Bassi e della Germania, dove i rispettivi governi hanno deciso di eliminare gradualmente la produzione di elettricità da carbone e si sono trovati di fronte al rischio o hanno affrontato cause legali da parte degli investitori. In entrambi i casi, stanno pagando letteralmente miliardi di euro a queste società. Una follia economica e ambientale.
Il secondo rischio è che ora tutti i governi sono consapevoli di poter essere oggetto di questo tipo di procedimenti. Francia, Nuova Zelanda e Danimarca stavano sviluppando regolamenti per porre fine all’estrazione di petrolio e gas offshore prima di essere minacciati dalle società coinvolte. Ma poi i ministri di questi tre Paesi hanno dichiarato che non li avrebbero implementati a causa delle minacce di azioni legali. E questa deve essere solamente la punta dell’iceberg: chissà quanti altri governi hanno pensato di chiudere delle centrali a carbone ma si sono tirati indietro per paura di affrontare un Isds. È quello che noi esperti chiamiamo in gergo regulatory chill, un’intimidazione rispetto a potenziali azioni legali che impedisce ai governi di agire.
Il costo che il cambiamento climatico potrebbe raggiungere da qui al 2050 è di 38mila miliardi di dollari l’anno, secondo le ricerche dell’Istituto di Potsdam che si occupa di ricerche sul climate change
Però i Paesi vengono citati in giudizio perché non rispettano un trattato bilaterale di investimento.
DB Dobbiamo prestare attenzione a quello che era l’intento originale del sistema Isds, che è stato sviluppato negli anni Sessanta per prevenire l’espropriazione illegittima di beni aziendali da parte dei nuovi governi indipendenti. Ma il sistema è andato fuori controllo a causa di decisioni che hanno interpretato in modo molto esteso la sua funzione. Il risultato è che, se oggi un governo stabilisce una tassa sulle emissioni di CO2, ci sono arbitri convinti che si tratti di una violazione dei diritti dell’investitore. Nei casi che ho appena menzionato di Germania e Paesi Bassi non c’era nessuna espropriazione, semplicemente un cambio di politiche che seguiva i consigli dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc, l’organismo dell’Onu per la valutazione dei cambiamenti climatici, ndr), accelerando il processo di chiusura della produzione di elettricità da carbone.
Chi difende gli Isds sostiene che permettono a un investitore privato di rivolgersi a un arbitro neutrale, evitando la corruzione o le inefficienze di alcuni sistemi giudiziari.
DB Una ricerca coordinata da Malcom Landford dell’Università di Oslo ha esaminato l’intero spettro degli arbitri. Hanno scoperto che è prassi lavorare come arbitro in un caso e, poi, come rappresentante di una corporation in altri. Ovviamente ciò non accade nello stesso contenzioso, ma hai comunque un conflitto di interessi perché, quando operi come arbitro, hai un incentivo a prendere decisioni che saranno favorevoli al tuo cliente aziendale. L’altro problema è che questi collegi arbitrali non devono applicare la normativa internazionale sui diritti umani e nemmeno il diritto ambientale internazionale, non devono seguire i precedenti che sono stati fissati da altri collegi arbitrali, è davvero il selvaggio west.
“Il pronunciamento della Corte europea contro la Svizzera mostra come i diritti umani possono essere usati per chiedere conto ai governi sulle loro azioni per il clima”
Nel suo rapporto sostiene anche che i Paesi che taglieranno le proprie emissioni di gas climalteranti, adempiendo all’accordo di Parigi, potrebbero essere suscettibili di azioni legali per miliardi di dollari. Perché?
DB Una squadra di ricercatori della Queen’s University in Canada e della Boston University degli Stati Uniti ha calcolato il valore dei beni stranieri delle compagnie fossili in tutto il mondo e ha stimato 340 miliardi di dollari di potenziali richieste di risarcimento. Ma io penso che la cifra potrebbe essere anche più elevata, viste le sentenze che abbiamo osservato in casi recenti di arbitrato. Ovviamente sarebbe catastrofico per tutto il mondo.
Nel 1992 è stata sottoscritta la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, seguita nel 2015 dall’Accordo di Parigi. Nessuno di questi accordi prevede meccanismi vincolanti per gli Stati
Nonostante non cerchi in nessun modo di addolcire il rischio che l’umanità intera corre, Boyd guarda però al futuro con ottimismo. Per lui, l’inclusione del diritto a vivere in un ambiente pulito, sano e sostenibile all’interno dei diritti umani riconosciuti dalle Nazioni Unite apre infatti a nuove prospettive.
DB Il recente pronunciamento (della Corte europea dei diritti dell’uomo, ndr) contro la Svizzera (per la sua inerzia nell’azione climatica, ndr) è un esempio convincente del motivo per cui è così importante adottare un approccio alla crisi climatica basato sui diritti umani. Già nel 1992 le nazioni di tutto il mondo avevano firmato la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, seguita nel 2015 dall’Accordo di Parigi sul clima. Ma nessuno di questi accordi prevede alcun meccanismo vincolante per gli Stati. Quando però si introducono i diritti umani nell’equazione, significa che le persone potranno appellarsi a un corpus di leggi, di processi e di istituzioni ben definite. È già accaduto nei Paesi Bassi, in Germania e in Belgio. E, anche in questo caso, le anziane signore svizzere avevano già portato la denuncia contro il loro governo a un tribunale nazionale ed è stato un fallimento. Ma poi si sono appellate alla Corte europea dei diritti umani. E la loro decisione mostra chiaramente che i diritti umani possono essere usati per chiedere conto ai propri governi sull’azione per il clima.
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