Crisi climatica / Approfondimento
Le banche che finanziano il caos climatico. Tra loro anche Unicredit e Intesa Sanpaolo
Nel 2022 i 60 maggiori istituiti di credito del mondo hanno investito 673 miliardi di dollari nel settore fossile, 5.500 miliardi dall’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi sul clima. Dietro le banche americane, canadesi e britanniche, anche i colossi italiani ignorano gli allarmi della comunità scientifica. Il ruolo del gas “naturale” liquefatto
Nel 2022 le prime 60 banche del mondo per fatturato hanno investito 673 miliardi di dollari nel settore dei combustibili fossili, poco meno di 5,5mila miliardi a partire dal 2016, anno di entrata in vigore dell’Accordo di Parigi sul clima. Rischiando così di compromettere in modo irreversibile il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo che prevedono di limitare l’aumento della temperatura media globale a fine secolo entro gli 1,5°C. Sono i risultati dell’edizione 2023 di “Banking on climate chaos”, report realizzato grazie al supporto di più di 625 organizzazioni di 75 Paesi e che analizza gli impegni climatici e gli investimenti nel settore oil&gas dei 60 maggiori istituti di credito al mondo
I principali finanziatori sono stati i gruppi bancari statunitensi (per il 28% di tutti gli investimenti fossili), canadesi, cinesi, giapponesi, francesi e britannici. Allo stesso tempo solo una delle 60 banche, la francese Banque postale, si sarebbe dotata di una policy sul clima ritenuta robusta e allineata con l’Accordo di Parigi (ed è l’unica a non aver finanziato l’espansione dei combustibili fossili nel 2022, mentre negli anni precedenti ha speso 441 milioni di dollari complessivamente). Mentre altri 49 istituti di credito del gruppo che hanno sottoscritto una policy per il raggiungimento della neutralità climatica hanno garantito un totale di 122 miliardi di dollari alle prime 100 aziende fossili. Eppure il settore ha ottenuto profitti record nel corso del 2022, anche a causa della guerra in Ucraina e del relativo aumento dei costi di gas ed elettricità, le aziende fossili hanno segnato un profitto complessivo di circa quattromila miliardi di dollari.
“Gli studi sul clima confermano che non possiamo bruciare tutto il petrolio e il gas presente nei giacimenti e nelle miniere in attività se vogliamo limitare il riscaldamento a 1,5°C o addirittura a 2°C; eppure le banche continuano ad alimentare la crisi climatica versando miliardi all’industria dei combustibili fossili -ha spiegato David Tong, Global industry campaign manager di Oil change international-. Per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C è necessario che la produzione di petrolio e gas diminuisca di almeno il 3-4% all’anno. È ora che le banche agiscano concretamente e smettano di finanziare la distruzione del clima”.
Nel corso del 2022 il principale istituto di credito ad avere sostenuto l’industria fossile è stata la Royal bank of Canada, che ha investito 42,1 miliardi di dollari, per un totale di 254 miliardi dal 2016. Nei sette anni considerati dalla ricerca, invece, i primi quattro finanziatori sono stati le banche americane JPMorgan Chase (434 miliardi di dollari totali e 39,2 nel 2022), Citi (333 miliardi totali e 33,9 lo scorso anno), Wells Fargo (318 miliardi e 38,9) e Bank of America (281 e 36,9).
Nel report si tratta anche dei due principali istituti di credito italiani. Unicredit si conferma al 39esimo posto con 42,8 miliardi di dollari investiti dal 2016 e 5,73 nel solo 2022, un incremento del 17% rispetto ai 4,89 dell’anno precedente. Il che la rende una delle 16 banche ad aver aumentato il proprio impegno nei combustibili fossili tra il 2021 e il 2022. Intesa Sanpaolo, alla 54esima posizione, registra un sostegno totale di 21 miliardi immessi nel settore oil&gas di cui 3,25 nel corso del 2022.
Tra i settori esaminati con più attenzione dalla ricerca vi sono le cosiddette fonti fossili “non convenzionali”: la produzione di petrolio da sabbie bituminose, lo sfruttamento di giacimenti artici, l’estrazione offshore e il fracking. Delle 60 banche esaminate, 40 hanno implementato delle restrizioni ai finanziamenti in questi quattro campi: per la precisione, 39 nei giacimenti artici, 28 per le sabbie bituminose, 17 per l’offshore e 24 per il fracking. Tuttavia, le analisi del report mostrano che la maggior parte di queste policy non sono adeguate e sono giudicate “deboli o insufficienti” e solo due sono raggiungono standard minimi.
Ma a guidare l’espansione delle fonti fossili nel corso del 2022 è stato il settore del gas “naturale” liquefatto (Gnl). “L’invasione russa dell’Ucraina, iniziata nel febbraio 2022, ha creato una profonda pressione sui mercati energetici globali per sostituire rapidamente petrolio e gas russi. In nome della ‘sicurezza energetica’, le aziende, i governi e le banche hanno accelerato lo sviluppo e il finanziamento di terminali di Gnl -si legge nel report-. Gli sviluppatori hanno rispolverato così decine di proposte per terminali di esportazione in Nord America, Qatar, Africa e Australia. Oltre alla creazione di rigassificatori nei Paesi consumatori, in Europa e Asia, nonostante i rischi dovuti alla volatilità del mercato. Secondo il Global energy monitor, ci sono più di 170 terminali di liquefazione e rigassificazione in funzione in tutto il mondo e almeno altrettanti attualmente in fase di approvazione”. Di conseguenza il finanziamento del settore è passato dai 15,2 miliardi di dollari del 2021 ai 22,7 nel 2022 e un totale di 122,2 nei sette anni considerati. “Il dibattito sulla ‘sicurezza energetica’ nasconde una realtà fondamentale: il futuro del Gnl rimane oscuro e l’abbondanza di progetti proposti rischia di provocare un eccesso di offerta, un’oscillazione dei prezzi del gas e portare al ‘caos climatico’ -continuano i ricercatori-. È improbabile che la maggior parte dei terminali di esportazione proposti negli Stati Uniti ottenga un’approvazione finale di investimento. Sono semplicemente troppi e troppo rischiosi”.
Tra i casi descritti nel rapporto c’è anche quello del Golfo del Messico, “martoriato -come denuncia ReCommon, nel pool dei curatori di Banking on climate chaos- dall’espansione dell’industria del Gnl, che vede Intesa Sanpaolo protagonista con copiosi finanziamenti a compagnie quali Cheniere, ExxonMobil e Freeport Lng”.
L’Europa sta esplorando anche al di fuori degli Stati Uniti per cercare nuove fonti di approvvigionamento di Gnl, rivolgendosi tra gli altri a Nigeria e Mozambico. La prima possiede i più grandi depositi di gas fossile dell’Africa ed è al momento il maggiore esportatore di Gnl del continente. Il terminale di liquefazione nigeriano, operativo dal 1999 e gestito dalla Nigerian national petroleum corporation -in collaborazione con Shell, Total ed Eni- può produrre fino a 22 milioni di tonnellate di combustibile all’anno, pari al 6% del commercio globale di Gnl. “Il costo umano e ambientale di questa estrazione è enorme. Per costruire il complesso, le comunità dell’isola di Bonny (nel delta del fiume Niger, ndr) sono state trasferite, spesso con il coinvolgimento dell’esercito, perdendo così i loro mezzi di sostentamento. A distanza di vent’anni la popolazione non ha ancora ricevuto alcun risarcimento -denunciano i ricercatori-. Il frequente flaring (combustione del gas in eccesso, ndr) dell’impianto è collegato a problemi renali, cancro e danni ai polmoni”. La corsa europea verso il gas fossile africano, inoltre, potrebbe rallentare lo sviluppo di energie rinnovabili e ingabbiare l’Africa in un futuro fossile senza uscita.
Il Mozambico, invece, è la nuova frontiera del Gnl per i Paesi europei. Il progetto Coral South (a cui partecipa anche Eni) e che consiste in una nave gasiera nella provincia di Capo Delgado, nel Nord del Paese, sconvolta da conflitti e violenze, ha consegnato il suo primo carico nel dicembre 2022 alla Spagna, la principale competitor dell’Italia nel diventare il presunto hub del gas fossile nel Mediterraneo. Le crescenti tensioni geopolitiche hanno portato a una militarizzazione della regione e hanno spinto un milione di persone ad abbandonare i territori.
Un’altra regione messa a grave rischio a causa dell’espansione del gas liquefatto è il Verde island passage (Vip) stretto marittimo nelle Filippine. Considerata “l’Amazzonia degli oceani” grazie alla sua ricchezza di biodiversità marina, la Vip fornisce sostegno a più di due milioni di persone nelle cinque province filippine confinanti che vivono principalmente di pesca, acquacoltura e turismo (ne abbiamo parlato su Altreconomia 257). Nonostante una disastrosa perdita di petrolio a febbraio del 2023 abbia evidenziato i rischi di costruire ulteriori strutture fossili nella zona, sono state proposte ben 16 nuove infrastrutture per il Gnl nella regione. Il tutto non sarebbe possibile senza l’ampio supporto e il finanziamento da parte delle banche e degli istituti di credito.
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