Diritti / Approfondimento
La violenza sulle donne e i centri che lavorano con gli uomini maltrattanti
In Italia 50 strutture sono specializzate nel recupero degli autori degli abusi. Aperte in ritardo rispetto al resto d’Europa, propongono percorsi di sostegno ma spesso manca un’efficace collaborazione con l’autorità giudiziaria
“Ho 47 anni. La prima volta che ho dato uno schiaffo a una donna ne avevo 19”. Inizia così, senza giri di parole, il racconto di Andrea (nome di fantasia). Due anni fa, dopo uno spintone particolarmente violento, è stato denunciato dalla sua compagna. Da quel momento è iniziato il suo percorso di consapevolezza all’interno del centro per uomini maltrattanti Inter Pares di Trieste. “Una delle cose più importanti che ti insegna l’analisi è conoscere te stesso. Ora la mia vita è cambiata, vorrei essere stato denunciato prima”.
Fino a non molto tempo fa, però, Andrea non avrebbe avuto questa possibilità. Mentre in Italia le strutture specializzate nel trattamento e nella riabilitazione delle vittime di violenza sono nate negli anni Novanta, quelle dedicate al recupero degli autori hanno cominciato a sorgere solo nel 2009, in ritardo rispetto ai Paesi del Nord Europa -come Inghilterra e Norvegia- dove alcune sono state aperte già alla fine degli anni Ottanta. Ora sparsi sulla penisola ci sono più di 50 centri per uomini maltrattanti. Trenta di questi sono affiliati alla rete Relazioni libere da violenza-Relive, creata nel 2014 su impulso delle otto strutture allora esistenti. “Tutte le realtà che fanno parte della rete -spiega la portavoce Silvia Baudrino, coordinatrice del progetto Lato Oscuro del centro White Dove di Genova- condividono un percorso e modalità di lavoro comuni, che si rifanno alle linee guida europee e alla Convenzione di Istanbul”. Relive è membro di Work with perpetrators (Wwp, with-perpetrators.eu), una federazione che conta 64 membri in 32 Paesi del continente.
Il primo centro sorto in territorio italiano è il Centro di ascolto uomini maltrattanti-Cam, nato a Firenze su iniziativa della struttura antiviolenza Artemisia. Dal 2009 l’ente si è ingrandito: oggi conta cinque sedi in altrettante Regioni. “Lavorare con gli uomini è fondamentale -spiega Mario De Maglie, il vicepresidente-. È da loro che parte la violenza”. La prima cosa che bisogna fare, però, è mettere in sicurezza la partner e gli eventuali bambini. Per questo motivo la struttura -come le altre affiliate a Relive- contatta la donna in diversi momenti del processo e la informa se l’abusante ha smesso di andare alle sedute; è importante, poi, che anche chi è stato maltrattato intraprenda un percorso di cura. Tutelare le vittime è ancora più necessario quando i beneficiari non entrano volontariamente nei centri di ascolto. “All’inizio -spiega De Maglie- circa l’80% delle persone che venivano da noi lo faceva liberamente; oggi i numeri assoluti sono rimasti gli stessi ma le percentuali sono decisamente diminuite”.
Tantissimi uomini, infatti, approdano alla terapia a seguito di vicende giudiziarie. “La legge di riferimento è la 69 del 2019, il cosiddetto Codice rosso”, spiega l’avvocata Laura Ciapparelli, formatrice giuridica per la rete Relive che fino a poco tempo fa gestiva Uomini oltre la violenza, il centro per uomini maltrattanti di Foggia. “Si tratta di un adeguamento alle direttive europee e internazionali che modifica 21 articoli del codice penale, del codice di procedura penale, del codice di attuazione e delle procedure speciali”. La norma, tra le altre cose, stabilisce che chi si è reso colpevole di reati legati alla violenza di genere debba svolgere un percorso di consapevolezza all’interno di un servizio specializzato per ottenere la sospensione condizionale della pena. “L’impianto legislativo sul tema in Italia c’è ed è buono -continua l’avvocata-, occorre però tenere presente il contesto di realtà in cui si va a lavorare. Sarebbe auspicabile che ci fosse maggior dialogo: le autorità e i centri che lavorano con gli uomini maltrattanti dovrebbero venirsi incontro e trovare un linguaggio comune”. Uno dei punti critici del sistema, per esempio, è che nella sentenza non venga indicata una specifica struttura a cui il condannato si deve rivolgere; in questo modo chi accompagna l’autore di violenza e fa da garante al suo percorso è l’avvocato. Quest’ultimo, però, per mandato costituzionale, non può stendere una relazione negativa sul suo assistito. “Sarebbe importantissimo che i centri interagissero direttamente con l’autorità giudiziaria”, afferma Ciapparelli.
“Le autorità e i centri che lavorano con gli uomini maltrattanti dovrebbero venirsi incontro e trovare un linguaggio comune” – Laura Ciapparelli
Andrea è scettico sulle possibilità di cambiamento per chi viene obbligato ad andare in terapia. “Non sempre è possibile modificare il proprio comportamento -dice-. Bisogna essere motivati e avere la mentalità giusta, saper accettare di aver agito in modo sbagliato”. In questo possono essere utili le modalità di lavoro dei centri come Inter pares di Trieste. Dopo i primi incontri individuali, infatti, gli uomini iniziano a frequentare sedute di gruppo. “Attraverso il confronto e il supporto dei miei compagni sono cresciuto molto -racconta Andrea-. Ognuno aveva i suoi limiti e ci si aiutava a vicenda a superarli. Con il tempo impari a rivalutare il tuo comportamento e a rispettare le opinioni degli altri”. Durante gli incontri, vengono svolti anche dei giochi di ruolo; in uno di questi, a turno, gli utenti recitano la parte della donna maltrattata. Per quanto quello del roleplay possa sembrare un momento ludico, è invece un’occasione per scatenare profonde reazioni emotive in chi viene coinvolto. “Fa sentire inermi, indifesi, sottomessi. Vorresti rispondere, reagire ma non puoi perché hai paura”, ricorda Andrea.
Uno degli scopi del trattamento è conoscere meglio se stessi e le proprie emozioni. È una scoperta, questa, che viene disincentivata nei maschi fin dalla più tenera età. Il problema è culturale, quindi trasversale all’interno della società. “Non c’è un profilo specifico per chi si rivolge al nostro centro -dice Mario De Maglie, vicepresidente del Cam-; possono essere poliziotti, banchieri, operai, italiani o stranieri”.
64 sono i membri della federazione Work with perpetrators (Wwp), estesa a 32 Paesi europei. Ne fa parte la rete italiana Relazioni libere dalla violenza-Relive cui aderiscono 30 centri per uomini maltrattanti
A essere coinvolte nei trattamenti sono persone di tutte le età, di tutti i ceti e i livelli di istruzione. La violenza è un fenomeno strutturale: secondo Istat circa una donna su tre nel corso della sua vita ne ha subito qualche forma. Le denunce nella maggior parte dei casi arrivano solo quando iniziano le botte o le aggressioni, ma i maltrattamenti non si riducono a questo. La violenza psicologica o la violenza economica sono altrettanto traumatiche e invalidanti per la persona che le riceve, ma spesso vengono sottovalutate e passano sotto silenzio.
Le radici dei comportamenti violenti affondano nell’educazione. “Gli stereotipi di genere -afferma Baudrino, portavoce di Relive- sono tra i più difficili da abbattere. Generalizzando, la donna viene ancora vista come se fosse al servizio dell’uomo. Pensiamo sempre che nei Paesi nordici questi problemi non ci siano, ma non è così. Il gender gap c’è ancora, a gradi diversi, in tutte le società”. C’è bisogno -secondo gli operatori del settore- di una rivoluzione nella concezione della mascolinità e della femminilità che può essere fatta solo lavorando con le giovani generazioni. Per questo motivo Relive entra nelle scuole e parla con i ragazzi. Discutere con gli adolescenti di tali tematiche non è prematuro: da un sondaggio pubblicato nel 2019 sul sito Skuola.net ed elaborato dall’Osservatorio nazionale adolescenza è emerso che una giovane su dieci ha subìto violenze all’interno della coppia già prima dei 18 anni. “Cerchiamo di portare negli istituti scolastici modelli diversi, lavorando sugli stereotipi e sui pregiudizi e favorendo le buone relazioni umane”, aggiunge Baudrino.
“Gli stereotipi di genere sono tra i più difficili da abbattere. La donna viene ancora vista come se fosse al servizio dell’uomo” – Silvia Baudrino
“Ci sono ancora molte, troppe, ragazze che considerano la gelosia del proprio fidanzato un segno d’amore -dice Andrea-. Io vorrei poter dire a tutte loro che non è così e che per la violenza ci deve essere tolleranza zero”. Quando maltrattava la sua fidanzata -la stessa con cui sta tuttora, dopo aver seguito percorsi di aiuto paralleli-, l’uomo era estremamente sospettoso, maniaco del controllo. Ora, invece, sa che la probabilità che una persona non sia chi dice di essere c’è e fa parte della vita. “Se la mia compagna se ne andasse adesso, sarei sicuramente dispiaciuto, ma rispetterei la sua scelta perché è libera di fare ciò che vuole. Non proverei la rabbia che avrei avuto prima. Accettare la fatalità è un traguardo decisivo”.