Ambiente / Opinioni
La transizione del Pnrr nelle mani di chi non conosce una parola di ecologia
Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza manca non c’è alcun investimento nella formazione ecologica di chi lo dovrebbe mettere in atto: dai tecnici agli amministratori. “Senza iniettare conoscenza non otterremo alcun cambiamento”, osserva Paolo Pileri. Il “caso” dei mille “manager” chiamati ad accelerare le procedure
Non so se nel prossimo esecutivo il ministero della Transizione ecologica si chiamerà ancora così. Quel che so è che quella qualifica è stata ampiamente tradita perché di ecologia non si è mai parlato al contrario di quanto è successo per la riapertura delle centrali a carbone, per il ripensamento del nucleare, per la velocizzazione dell’installazione degli impianti fotovoltaici nei campi aumentando il consumo di suolo e riducendo la produzione di cibo. Giorno dopo giorno il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) si mostra sempre più per quello che non è: un passaggio a una visione ecologica del Paese. Questa è stata ampiamente manomessa, anche se in premessa al Pnrr leggiamo che l’Italia è “già fragile dal punto di vista economico, sociale ed ambientale” e “particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici”, afflitta da un’economia che deve “correggere i suoi squilibri sociali ed ambientali” altrimenti il Paese sarebbe condannato “a un futuro di bassa crescita”. Tutte belle frasi sulla gravità della questione ambientale, che però non garantiscono niente perché nessun cambiamento si realizza solo evocandolo, nessun cambiamento arriva se non si studiano gli errori (ecologici) del passato senza farsi prendere dall’urgenza (sempre più il motore dominante delle decisioni politiche, miopi di miopi, del Paese) e senza apprendere almeno i concetti di base per avviare una transizione che si porta a spasso l’aggettivo ecologica.
Non è pensabile che i corpi e le teste che poco o nulla sapevano di ecologia ieri siano pronti oggi: neppure la pandemia scatenata da un salto di specie ha insegnato loro qualcosa. Allora la domanda seria è: il Piano nazionale di ripresa e resilienza investe per formare i politici, i cittadini e le attività economiche e sociali sui termini “transizione” ed “ecologica”? A me non pare proprio. La spocchia di un certo pensiero economico-finanziario-giuridico-tecnico-tecnologico ha continuato a imporre le sue regole e la sua avida visione. E quindi nulla sta accadendo. I mille manager sbandierati dal ministro per la Pubblica amministrazione uscente Renato Brunetta e pomposamente definiti “protagonisti della nuova Pa” non sono altro che mille burocrati reclutati tra il settore pubblico e quello privato, più o meno tutti esperti di procedure, norme, delibere. Il processo di selezione è stato fatto da altri burocrati che non sanno nulla di ecologia in base a quesiti che riguardano la conoscenza delle procedure sulla legge degli appalti o sulla sicurezza o sul codice della strada, ma nulla sulla differenza tra un albero e una siepe. Ancora una volta “esperti” nelle pratiche burocratiche e per, dicono, accelerare la rendicontazione dei progetti e delle azioni contenute nel Piano. Quindi un gomitolo aggrovigliato, il Pnrr, che recluta “sgrovigliatori” per se stesso. Nulla a che fare con mille persone che arrivano dal mondo delle scienze naturali ed ecologiche per far cambiare rotta alle solite cose, ovvero per quella transizione ecologica con cui chiamano il Piano e pure un ministero.
Nulla sta cambiando. Se andiamo ad analizzare le misure previste dal Pnrr, incrociamo la voce di spesa “per il potenziamento dei servizi di formazione” (misura M4C1): 19,4 miliardi di euro. È il cuore della spesa in formazione prevista dal Piano. Di che si tratta? “Formazione sulla transizione digitale del personale scolastico” (M4C1.2, inv. 2.1); “formazione dei docenti perché siano in grado di adattare i programmi formativi ai fabbisogni delle aziende locali” (M4C1.2, inv. 1.5); “rendere i sistemi di istruzione e formazione più in linea con i fabbisogni del mercato del lavoro” (M5C1.1, inv. 1.4); “corsi brevi erogati da docenti universitari e insegnanti scolastici che consentano agli studenti di comprendere meglio l’offerta dei percorsi didattici universitari” (M4C1.1, inv. 1.6). Qualche altra risorsa si trova per percorsi universitari (dottorandi e ricercatori che saranno formati fra 3-7 anni) ma stiamo parlando di qualche decina di persone.
Nulla parla di formare il cuore dei decisori presenti e futuri alla transizione ecologica. Nulla che provi a spiegare loro che cosa è la biodiversità e come viene impattata dalla costruzione di una semplice strada. Neppure c’è traccia alla formazione agli Obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che sono già di per sé deboli. Ma come si può credere, allora, che il Pnrr possa attuare una transizione ecologica senza spendere un euro per capire e far capire cosa è questa ecologia verso cui bisogna tendere?
Certamente non siamo un Paese che può vantare una tradizione educativa antica e ben radicata in questi ambiti visto che le tematiche ambientali sono sempre state al margine dei programmi scolastici e di aggiornamento professionale. Mi tocca sospettare che il Pnrr sia stato scritto da mani ecologicamente impreparate e non porterà quei risultati di conversione ecologica, così urgenti, di cui abbiamo bisogno. Senza iniettare conoscenza, non otterremo alcun cambiamento culturale: una follia che pagheremo cara.
Personalmente spero che il Piano nazionale di ripresa e resilienza venga modificato. So che tutti quelli che in questo momento lo chiedono vengono additati come pazzi e di destra. Non appartengo al secondo gruppo e spero neppure al primo, ma ritengo seriamente che sarà difficile ottenere cambiamenti strutturali e duraturi se chi gestisce il Pnrr vuole vedere la formazione sempre e solo come fabbrica per ottenere lavoratori obbedienti e abili solo a portare più risultati al mercato e più profitti alle aziende, o come fabbrica di impiegati non pensanti che devono escogitare modi per non ostacolare i profitti e far sì che le questioni ambientali non disturbino chi vuole “fare”. Non è questa la grande occasione per colmare le lacune ecologiche che non hanno finora fatto spiccare il volo alla sensibilità ambientale e alla sostenibilità.
Per non parlare poi della pretesa di realizzare una transizione ecologica senza cambiare l’architettura geografica delle nostre amministrazioni locali, polverizzate in migliaia e migliaia di enti locali tra Comuni, Province, Città metropolitane, Comunità montane, Regioni, agenzie, consorzi e fondazioni. Tutti che vogliono la loro fetta di denaro dal Pnrr e tutti indisponibili a collaborare: già questa è una trappola che disintegra l’approccio ecologico che invece è sistemico per definizione. È impensabile avere un’idea di governo del territorio che riguarda il sistema ecologico di una valle se ad amministrarlo ci sono quindici Comuni dove ognuno vuole fare quel che vuole. Il Pnrr non fa nulla per introdurre nuove scale geo-ambientali di intervento, nuovi modi di trattare la questione territoriale e ambientale. Come se la frammentazione amministrativa non esistesse e non fosse un problema per traguardare risultati ecologici: lo è eccome. Anzi è forse il primo dei problemi. Il consumo di suolo e così come molte altre questioni ambientali pagano un prezzo altissimo alla frammentazione amministrativa. E non saranno mille esperti di burocrazia che risolveranno le cose senza modificare di un millimetro l’architettura delle decisioni.
D’altronde il sospetto che il Piano nazionale di ripresa e resilienza non abbia realmente al centro della propria attenzione l’ecologia e il pensiero ecologico trasuda da ogni poro. La visione liberista è da sempre nelle pieghe di quel Piano che vede la transizione ecologica né più né meno che come “un importante fattore per accrescere la competitività del nostro sistema produttivo” e non come il nuovo perno sul quale far ruotare le politiche. È sempre l’ossessione dell’incasso e della crescita a voler dire a tutti che cosa fare e se e come tutelare la natura. Il solito ritornello tossico.
A me risulta impossibile pensare che si possa fare una transizione ecologica senza saperne nulla, senza un minimo di formazione ambientale a tecnici e politici, senza un pensiero ecologico. Mi chiedo perché noi dovremmo ritenere accettabile che un sindaco, un deputato, un consigliere, un ministro, un presidente di comunità montana, un tecnico comunale, un tecnico regionale e così via (ma possiamo includere nella lista anche amministratori delegati, dirigenti e funzionari del settore privato) possano bellamente gestire il più grande pacchetto di investimenti dal dopoguerra a oggi, intitolato alla transizione ecologica, senza sapere nulla di ecologia. Per fiducia? Ma nei confronti di chi? Di coloro che un attimo prima hanno portato il Paese al fallimento? È normale? A me pare che siamo in pieno delirio e stregati dall’anatema del Gattopardo: un mega piano che dice di cambiare tutto senza cambiare nulla.
Difficile pensare che il prossimo governo, di matrice ultra-liberista (e pure peggio), modifichi in senso progressista un Pnrr scritto già da mani neoliberiste e intrise di tecnocrazia, si professavano progressiste ma che non lo erano affatto. Non aver stanziato un solo euro per una formazione coerente agli obiettivi di un documento incentrato sulla transizione ecologica è folle e grave. E non costruisce quelle fondamenta robuste che sono necessarie per mettere in sicurezza le prossime generazioni, per cambiare visione, per educare gli sguardi. Però, e questo è certo, garantirà ai soliti pochi che già hanno guadagnato con il Covid-19, con la guerra, con la crisi energetica, di continuare a incassare lasciando a noi qualche bonus e qualche illusione. Non so onestamente se e cosa potrà fare il prossimo governo con la tradizione di bassissima sensibilità ecologica che ha sempre mostrato. Dobbiamo fare chiasso e vigilare.
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022)
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