Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Economia / Attualità

La società civile chiede al Parlamento europeo un divieto totale ai lobbisti di Amazon

© ANIRUDH - Unsplash

Il Parlamento europeo a inizio anno ha ritirato i badge rilasciati ai rappresentanti della multinazionale per il rifiuto di confrontarsi con i sindacati. Ma il colosso tenta ancora di influenzare le scelte dell’Ue tramite pedine “indirette”, think tank e società di consulenza. Le Ong chiedono trasparenza e un bando realmente efficace

Più di 20 sindacati e organizzazioni della società civile, tra cui Uni Europa, Corporate Europe Observatory (Ceo) , Defend democracy e SOMO, hanno firmato a metà marzo una lettera diretta al Parlamento europeo per chiedere “un divieto totale, trasparente ed efficace alle attività di lobby di Amazon”. L’iniziativa è seguita alla decisione, presa il 27 febbraio scorso dal Parlamento europeo, di ritirare i badge d’ingresso dei 14 lobbisti accreditati da Amazon “a seguito del ripetuto rifiuto dell’azienda di partecipare alle audizioni parlamentari”.

“Defend democracy ha firmato la lettera congiunta che chiede il divieto -spiega ad Altreconomia Alice Stollmeyer, fondatrice e direttrice esecutiva della Ong- perché il disprezzo di Amazon per il controllo democratico è inaccettabile. Siamo lieti che il Parlamento europeo sia d’accordo e tracci una linea bandendo i lobbisti dell’azienda dalle sue sedi. Dalle grandi dimensioni derivano grandi responsabilità e Amazon non può sfuggire a questo principio”.

Il divieto totale richiesto da sindacati e organizzazioni toccherebbe dunque anche quelle “organizzazioni che cercano di influenzare i processi decisionali per conto di Amazon”, dal momento che il colosso dell’e-commerce esercita di fatto pressioni anche attraverso intermediari, come ad esempio società di consulenza e associazioni.

I numeri citati nella lettera parlano chiaro. Dal 2013 le big tech avrebbero speso ben 18,8 milioni di euro “per esercitare pressioni sulle istituzioni dell’Unione europea”. E il registro per la trasparenza -si legge- “mostra che, solo nel 2023, Amazon ha speso tra 2.090.000- 3.099.982 euro in 20 società di consulenza che esercitano attività di lobby per conto dell’azienda”. “Pensiamo che, affinché il divieto del Parlamento sia davvero efficace dovrebbe essere esteso a queste organizzazioni, dimostrando così ad Amazon che non può continuare a mancare impunemente di rispetto alle istituzioni”, aggiunge Oliver Roethig, segretario regionale di Uni Europa.

Gli fa eco Margarida Silva, ricercatrice di SOMO: “Allo stato attuale il Parlamento europeo ha rimosso i badge dei lobbisti di Amazon, impedendo loro di entrare in Parlamento di loro spontanea volontà. Tuttavia i lobbisti terzi potranno ancora rappresentare l’azienda e influenzare i processi politici per suo conto. Crediamo che questa sia una enorme scappatoia”.

I fatti più recenti li riassume ancora Roethig: “Nel dicembre 2023 Uni Europa ha coordinato una delegazione della Commissione europea per l’occupazione e gli affari sociali del Parlamento europeo presso i magazzini Amazon in Germania e Polonia. Con brevissimo preavviso, l’azienda ha annullato questa visita programmata da tempo”. E aggiunge: “Nel gennaio 2024, il Comitato ha organizzato un’audizione al Parlamento europeo in cui i sindacati membri di Uni Europa provenienti da Germania e Polonia hanno riferito in merito alle condizioni di lavoro nei suoi magazzini. Ancora una volta Amazon ha rifiutato di presentarsi, come ha fatto per un’altra udienza simile nel 2021”.

Da qui la richiesta di ritiro dei badge permanenti dei lobbisti di Amazon. “Questa -precisa Roethig- è stata solo la seconda volta nella storia che i lobbisti di un’azienda sono stati banditi dal Parlamento, dopo quelli della Monsanto nel 2017”. E ricorda un dettaglio interessante: “La società ha cambiato la sua narrativa subito dopo la decisione sul ritiro dei badge della lobby, dichiarando di aver ‘rifiutato di partecipare a una sessione in corso, chiaramente unilaterale e non concepita per incoraggiare un dibattito costruttivo o una critica obiettiva’. Curiosamente, fino a quel momento, per la mancata partecipazione all’ultima audizione della commissione nel gennaio 2024 aveva fornito ragioni relative alla programmazione”.

La sua posizione è netta: “Riteniamo che un’audizione alla quale entrambe le parti sociali, datore di lavoro e sindacati, sono stati invitati non soddisfi la definizione di ‘unilaterale’. Per questo, non possiamo fare a meno di trarre la conclusione che Amazon attualmente non è interessata a una discussione aperta sulle condizioni di lavoro nei suoi magazzini”.

A motivare la lettera, dice ad Altreconomia Bram Vranken, attivista del Corporate Europe Observatory, c’è il desiderio che Amazon “si impegni in un dialogo significativo sia con i sindacati sia con i rappresentanti democraticamente eletti sulle condizioni dei suoi magazzini, sui salari, sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori”.

Vranken ricorda infatti l’ipotesi di revoca delle misure proposta nel caso in cui Amazon partecipasse a un’audizione sulle condizioni di lavoro nei suoi magazzini in una modalità simile a quella dell’udienza del 23 gennaio e qualora accettasse una visita della Commissione per l’occupazione e gli affari sociali del Parlamento europeo (Empl) e dei rappresentanti dei lavoratori ai suoi magazzini in Polonia e in Germania. “Queste non sono richieste radicali -commenta- ma il minimo indispensabile di quello che ci si può aspettare da un’azienda che opera nella tradizione del modello sociale europeo”.

Nel frattempo, si legge ancora nella lettera aperta, “il segretariato del registro per la trasparenza dell’Ue sta attualmente indagando su Amazon per non averlo fatto riferire sulle sue affiliazioni a diversi think tank e dichiarare un budget per le attività di lobby apparentemente troppo basso”. L’attendibilità stessa del registro per la trasparenza europeo è infatti un’altra nota dolente. Che, per come stanno attualmente le cose, non pare neppure facilmente risolvibile. “La segreteria -puntualizza Vranken- è a corto di personale e non è attrezzata a controllare accuratamente le informazioni archiviate da decine di migliaia di attori lobbistici. Di conseguenza nel registro per la trasparenza la qualità delle informazioni è bassa”. E cita un caso: “Nel 2022 Ceo e LobbyControl hanno presentato un reclamo per centinaia di casi di dati non plausibili presenti nell’attuale registro per la trasparenza. La segreteria ha confermato che il 97% delle 430 registrazioni erano effettivamente errate”.

Come se ne esce? “La non conformità -conclude Vranken- rimarrà un problema finché il Registro per la trasparenza sarà su base volontaria. Quello che serve è un registro obbligatorio con sanzioni e misure giuridicamente vincolanti”. “Attualmente -conferma Silva- non ci sono quasi controlli sulle dichiarazioni delle lobby dell’Ue. E questo è stato recentemente confermato anche dal Mediatore europeo, che ha criticato il segretariato del Registro per la trasparenza per non aver nemmeno adeguatamente indagato sulle denunce”. Non solo. “Nel corso della storia del Registro per la trasparenza europeo, è toccato a organismi di controllo indipendenti come il Mediatore ma anche a Ong come SOMO e Corporate Europe Observatory indagare e segnalare informazioni errate o fuorvianti. Il sistema è chiaramente difettoso e non dispone degli incentivi per funzionare correttamente”.

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.


© 2024 Altra Economia soc. coop. impresa sociale Tutti i diritti riservati