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La Resistenza antifascista nella storia del nostro Paese è unica

© Daniel Sharp - Unsplash

Sostenere che la resistenza ucraina e quella italiana siano profondamente diverse non significa negare la legittimità di quel popolo di difendersi dall’invasione russa. Ma la distinzione è necessaria per evitare una pericolosa generalizzazione, osserva Alessandro Volpi

Sostenere che la resistenza ucraina e quella italiana sono profondamente diverse non significa, in alcun modo, negare la piena legittimità del popolo ucraino di difendersi dall’invasione russa. La distinzione è però necessaria per evitare una pericolosa generalizzazione che rischia di far smarrire l’assoluta centralità che la fase resistenziale ha avuto per la storia italiana. L’Italia che è arrivata all’8 settembre del 1943 non era un Paese democratico, aveva una monarchia corresponsabile delle scelte tragiche del fascismo e colpevole dell’abbandono degli italiani al loro drammatico destino. Quell’Italia, retta dallo Statuto albertino, era stata prima uno Stato per lunghi tratti repressivo, che aveva deciso di prendere parte alla Prima guerra mondiale contro la volontà di Parlamento e popolazione, e poi un regime, nato da un governo con un presidente del Consiglio di minoranza, trasformatosi in duce per un ventennio.

Peraltro, nessuna delle guerre combattute dal Regno di Sardegna e in seguito dal Regno d’Italia è stata una guerra di popolo; le imprese mazziniane sono state iniziative contrastate dalle autorità statali e l’azione di Garibaldi si è svolta sempre in un rapporto difficile con la monarchia che reggeva il Paese, al di là della retorica delle ricostruzioni in cerca di un’identità italiana condivisa. In tale quadro la Resistenza è stata l’unica, vera lotta democratica e popolare, ma è stata anche la fase di una dura guerra contro i civili e, al contempo, una guerra civile che ha lacerato la coscienza del Paese. Soprattutto è stata un processo che non è iniziato dopo il 25 luglio del 1943, ma ha avuto una lunga storia, avviatasi con l’antifascismo successivo al 1922, proseguita in esilio, al confino e nell’opposizione quotidiana alle angherie del regime; un processo che è stato accompagnato da un lungo dibattito costituente, cominciato assai prima dell’apertura dell’Assemblea che di tale discussione è stata la sintesi articolata, riprendendo anche le parti migliori del Risorgimento. 

In tale ottica, la Resistenza italiana è stata la matrice della Costituzione che ha portato con sé una evidente natura ostile nei confronti di ogni idea della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti. Non è un caso, solo per citare un esempio fra i molti possibili, che il termine “Italia” compaia nella Costituzione solo due volte; nell’Articolo 1, dove viene sancita la sua intrinseca qualità democratica, e proprio nell’Articolo 11, in cui viene espresso con forza il ripudio della guerra. Anche il termine “Patria” è utilizzato con estrema sobrietà, due volte, all’Articolo 52 e all’Articolo 59. In entrambi i casi indica un insieme di valori e di ideali di appartenenza che non sono in alcun modo traducibili in chiave militare.

Il “sacro dovere” della “difesa della patria” rappresentava per i padri costituenti l’obbligo della preservazione della democrazia, della libertà e dell’insieme di principi che fondavano la “patria nuova”, nata proprio con la Resistenza: i senatori a vita, non a caso, avrebbero dovuto essere scelti fra coloro che avevano “illustrato” quell’idea di Patria. Il termine “Nazione”, parimenti, compare nella Costituzione italiana soltanto in tre articoli; nell’Articolo 9 in riferimento alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, nell’Articolo 98 per indicare che gli impiegati pubblici sono al servizio della Nazione e nell’Articolo 67 che recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Si tratta dunque di un utilizzo assai morigerato di un termine tanto centrale nel vocabolario storico e politico. Le ragioni di tale accurata parsimonia sono molteplici e hanno a che fare con la volontà di rimuovere l’abuso strumentale fattone dal fascismo e, soprattutto, di conferire all’idea di nazione il massimo valore per la prerogativa pressoché esclusiva di rappresentare l’intera comunità italiana, nel suo passato, nel suo presente e nel suo futuro.

È evidente, in questo senso, che la nazione indicata nella nostra Costituzione, non ha nulla a che fare con il nazionalismo, un elemento del tutto distante dal sacrificio della Resistenza italiana, in cui non sono mancate le esperienze della lotta nonviolenta; dal rifiuto dei militari italiani internati nei campi di concentramento di aderire alla Repubblica sociale italiana, al sostegno di intere popolazioni ai nuclei partigiani, al rifugio dato agli ebrei perseguitati. Non è mancato mai neppure il pieno rispetto per il valore della vita umana, della persona, posto a fondamento della Costituzione, che ha dimostrato di aver ben chiara, insieme alla lotta per la libertà, la necessità di tutelare l’esistenza dei cittadini, evitando l’assolutizzazione della “violenza giusta”.

Alla luce di queste brevi considerazioni, utilizzare il riferimento alla Resistenza italiana per qualificare il fenomeno della resistenza in quanto tale, per definire l’opposizione di un popolo ad un’invasione, rischia di indebolire il significato della assoluta insostituibilità della Resistenza antifascista nella storia del nostro Paese; significa farle perdere la funzione ideale e civile di elemento fondativo della libertà e della democrazia italiana.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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