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Diritti / Intervista

La Polonia che imprigiona i migranti nei campi, ostaggio dei “geni della manipolazione”

Un frame tratto da "We are prisoners of the Polish State" © Superwizjer TVN

Il 15 ottobre, con le elezioni generali, i cittadini polacchi saranno chiamati a esprimersi su un referendum xenofobo indetto dal partito di estrema destra al potere. Rut Kurkiewicz, co-autrice del documentario “We are prisoners of the Polish State” e tra le poche voci indipendenti del Paese, racconta la situazione dei transitanti e rifugiati

“Sei d’accordo con l’ammissione di migliaia di immigrati illegali dal Medio Oriente e dall’Africa, a seguito del meccanismo di ricollocamento forzato imposto dalla burocrazia europea?”. “Sei d’accordo con la rimozione delle barriere al confine tra Polonia e Bielorussia?”. Sono due dei quattro quesiti che figurano nel referendum indetto dal partito polacco di estrema destra Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, Pis), attualmente al potere. Si vota il 15 ottobre, stesso giorno delle elezioni governative.

Rut Kurkiewicz, una delle poche voci indipendenti nel panorama dell’informazione polacca sulla situazione delle persone rifugiate e transitanti, chiama “geni della manipolazione” gli artefici di quelle domande, che trovano la loro ratio nello spostare l’attenzione su un nemico esterno piuttosto che sui temi che davvero dovrebbero trovare posto in una campagna elettorale. 

Dall’inizio della cosiddetta crisi dei rifugiati al confine tra Polonia e Bielorussia nell’estate del 2021, Kurkiewicz, con il suo lavoro giornalistico, racconta che cosa accade alle persone in movimento una volta entrate nel Paese. Nel 2022, insieme a Wojciech Szumowski, ha pubblicato “We are prisoners of the Polish State”, documentario riguardante la situazione dei centri di detenzione in Polonia. È stato trasmesso sulla prima televisione nazionale, raggiungendo almeno mezzo milione di persone. 

Kurkiewicz, quale è la situazione attuale delle persone in movimento tra Bielorussia e Polonia, a due anni dalla cosiddetta crisi del confine?
RK Non è cambiato nulla. Ogni anno decine di migliaia di persone tentano di attraversare questo confine, in particolare nella stagione estiva. Non si sa quante riescano effettivamente a passare e quante siano respinte; la polizia di frontiera ogni giorno pubblica sui propri canali social il numero di persone intercettate, ma non si sa quanto questi dati siano affidabili. La cosa di cui siamo certi è che dal 2021 sono 50 le salme ritrovate al confine. Sono decine anche gli scomparsi. I gruppi di attivisti che operano su questo confine vengono contattati tutti i giorni dai familiari di persone di cui non si hanno più tracce. L’argomento sembra dimenticato, sia in Polonia sia fuori: ci sono tre gruppi di attivisti che intervengono come possono in forma volontaria ma nessuna grande organizzazione, nessun organismo europeo o internazionale. 

Che ruolo gioca la polizia di frontiera in tutto questo?
RK Ogni giorno opera respingimenti, indipendentemente da chi si trova di fronte. Di recente gli attivisti hanno trovato un ragazzo somalo in condizioni critiche, respirava con difficoltà, sembrava essere disidratato. I volontari hanno chiamato l’ambulanza. Al suo posto è arrivata la polizia di frontiera, hanno messo il ragazzo su un autocarro militare, gli hanno detto di sorridere e nel frattempo lo hanno ripreso: il video è sui social della polizia di frontiera, si vede evidentemente che il ragazzo sta male. Probabilmente poi è stato respinto, perché non si trova nei registri dei centri di detenzione. La famiglia ha perso i contatti con lui.

Un frame tratto da “We are prisoners of the Polish State” © Superwizjer TVN

Dal febbraio 2022 milioni di ucraini in fuga dalla guerra hanno attraversato il vicino confine tra Ucraina e Polonia. In questo caso la grande maggioranza è stata accolta, non riscontrando alcun ostacolo alla frontiera. Come mai questa differenza?
RK Su entrambi i confini ci sono persone che scappano da guerre. Su uno, iracheni, afghani, siriani, sull’altro, ucraini. Ma gli standard sono stati opposti: da una parte respingimenti e violenze, dall’altra apertura e accoglienza. Esiste un razzismo istituzionalizzato alle frontiere e in questo caso è stato lampante. Chi era nero, anche sul confine ucraino-polacco, veniva fermato, i bianchi no. Questa differenza si è vista anche nella reazione dei cittadini polacchi: c’è stata un’enorme mobilitazione per ospitare le persone ucraine, tantissima gente comune ha aperto le porte di casa, è stato bello. Allo stesso tempo per le persone non ucraine nulla di questo. Nel mio giro di amici alcuni hanno ospitato persone ucraine per settimane. Una volta ho provato a chiedere loro di ospitare una persona irachena per due notti: non ho trovato nessuno. C’è paura, un razzismo profondo nelle nostre menti. Gli Stati Uniti hanno fatto un grande lavoro dopo l’11 settembre: hanno vinto, adesso tutta l’Europa è razzista. 

Nel tuo ultimo documentario “We are prisoners of the Polish State” racconti della situazione carceraria a cui vengono costrette le persone una volta in Polonia. Quale è la situazione attuale?
RK Adesso sono cinque i campi di detenzione in Polonia, all’interno dei quali si trovano circa 500 persone, a fine 2021 ce n’erano molte di più. Dopo i report di alcuni giornali e associazioni il campo più grande a Wędrzyn ha chiuso i battenti, era come l’inferno.

Come mai le persone che vogliono fare domanda di asilo, una volta in Polonia, vengono rinchiuse nei centri detentivi?
RK Quando le persone in movimento sorpassano “illegalmente” il confine, se vengono intercettate dalla polizia di frontiera polacca e non vengono respinte in Bielorussia, con buona probabilità vengono portate in un centro di detenzione. È paradossale: da una parte la Polonia non vuole persone migranti, dall’altra una volta che entrano non vuole che queste lascino il Paese, rinchiudendole in un centro. La situazione legale è poco chiara: alcune persone rimangono lì due anni, altre tre mesi, anche se provengono dallo stesso Paese, anche se hanno una storia simile. Non si capisce quale sia la logica.

Un frame tratto da “We are prisoners of the Polish State” © Superwizjer TVN

Il 5 settembre, nel campo di detenzione di Prezmy, le persone detenute hanno cominciato uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni di prigionia. Pensi che questo cambierà qualcosa?
RK Speriamo. È un evento unico, ci sono stati altri scioperi della fame, ma questa è la prima volta che quasi tutte le persone all’interno del campo partecipano. Sono 100 detenuti in sciopero della fame. Protestano contro il trattamento disumano delle guardie del centro. Queste utilizzano taser per far rispettare l’ordine, identificano i detenuti con dei numeri e non con nomi e cognomi. Nel campo non si possono utilizzare social network, impedendo così ai detenuti di avere contatti con famiglie e amici. Il cibo e gli oggetti per l’igiene sono centellinati. Qualche settimana fa nel centro è morto un ragazzo siriano di 27 anni. La polizia ha inizialmente nascosto quanto accaduto, ma adesso il caso è già in corte. Era ammalato, ha più volte chiesto l’intervento di un dottore. Lo hanno picchiato per porre fine alle sue richieste. Alla fine, è morto nel campo di detenzione, senza l’intervento di nessuno. La polizia nei campi si sente al di sopra delle leggi nazionali e internazionali. A Prezmy stanno protestando per tutto questo.

Il tuo documentario sui centri di detenzione è stato trasmesso in prima serata sulla prima televisione polacca. Sono state organizzate proiezioni in altri Paesi dell’Unione europea, quale è l’impatto che questo tuo importante lavoro sta avendo sull’opinione pubblica?
RK Difficile da dire. Il vantaggio di un documentario che va in televisione, rispetto agli articoli o ai report sui giornali, è che raggiunge un pubblico più vasto: l’hanno visto in 500mila. Capitava che alcune persone mi fermavano per le strade, nei negozi, dicendomi: “Non sapevamo che stesse accadendo questo, è terribile”. Concretamente però non è cambiato nulla, le guardie di polizia dei centri detentivi continuano ad agire nello stesso modo. Voglio però credere che il nostro lavoro abbia cambiato le menti di qualcuno. I polacchi non potranno dire: “Non lo sapevamo”. Adesso sanno dell’esistenza di questa enorme oppressione. 

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