Ambiente / Approfondimento
La nuova collezione del greenwashing. Così il settore della moda si vende come non è
I grandi marchi della fast fashion cercano di celare con una patina verde l’enorme impatto ambientale e sociale del settore. Greenpeace Germania ha analizzato alcune delle etichette autoprodotte di sostenibilità di brand come Benetton, Calzedonia, Decathlon e H&M. Il risultato non è così “green” come sembra
La fast fashion adora vendersi verde. Ma non lo è. Lo sottolinea il recente rapporto di Greenpeace Germania intitolato “Greenwash danger zone” che ha preso in esame uno strumento sempre più in uso dai grandi brand d’abbigliamento: le self-assessed labels, ovvero le etichette autoprodotte di sostenibilità. Emerge che le rivendicazioni di sostenibilità dei marchi vengono spesso usate come uno scudo per mantenere in piedi un sistema “rotto” come quello della moda.
La quota di consumatori che pone attenzione nelle scelte d’acquisto cresce. Dall’indagine effettuata da Greenpeace, ad esempio, il 45% dei cittadini tedeschi dichiara di comprare capi di seconda mano, mentre l’80% afferma di prestare molta più attenzione agli impatti ecologici nell’acquisto di nuovi abiti.
La produzione di vestiti resta però smisurata: è raddoppiata dal 2000 al 2014 e si prevede che raggiunga i 200 miliardi di capi prodotti per il 2030. La letteratura scientifica sottolinea da anni come l’industria tessile sia responsabile del 5-10% delle emissioni di gas serra globali, con la filiera produttiva localizzata principalmente in Paesi a basso reddito e che impatta per l’85%. Il consumo d’acqua nella produzione è di 93 miliardi di metri cubi all’anno, che oltre a essere consumata viene anche inquinata dall’uso intensivo delle 3.500 sostanze chimiche nelle fabbriche, spesso poi rilasciate nei corsi d’acqua. Inoltre, i volumi di produzione stanno aumentando del 2,7% ogni anno e meno dell’1% dei vestiti viene riciclato, la maggior parte viene incenerito nei Paesi ad alto reddito o esportato verso quelli a basso reddito, per poi essere bruciato o accumulato nelle discariche a cielo aperto. Se già l’industria della moda fast ha un impatto devastante, la new entry del mercato Shein è riuscita a mettere “sotto steroidi” quel modello, aprendo la via per l’ultra fast fashion.
Per coprire l’evidenza, i marchi iniziano così a promuovere nuove linee con stringhe chiave come “eco” “green” o “cares”, nella speranza di attrarre e rassicurare anche i consumatori che iniziano a pretendere più trasparenza della filiera. Spesso le etichette presentano delle certificazioni a testimonianza della maggior sostenibilità di quegli specifici capi, le quali sono nella maggior parte dei casi frutto di una valutazione interna e non effettuata da enti terzi imparziali. In una recente analisi delle dichiarazioni di sostenibilità nel settore tessile è stato ipotizzato che il 39% sono false o ambigue. Alcuni brand sono stati perfino portati davanti alle autorità giudiziarie. Nel 2022, H&M è stata chiamata in causa dalla Norwegian Consumer Authority per aver utilizzato una scheda di valutazione -basata sul Higg Material Sustainability Index, il quale è altamente criticato poiché favorisce l’uso di materiali sintetici piuttosto che fibre naturali- per la sua linea “Conscious Collection” che narrava in modo errato la sostenibilità ambientale dei capi. Anche Decathlon, insieme ad H&M, è stata accusata dalla Netherlands Authority for Consumer and Markets, di aver promosso la sostenibilità dei propri vestiti con dichiarazioni “poco chiare e non sufficientemente documentate”.
Il 35% delle microplastiche primarie nell’oceano derivano dal lavaggio di capi in materiale sintetico
Nel rapporto “Greenwash danger zone”, Greenpeace ha preso in esame le etichette di presunta sostenibilità di 29 marchi che hanno preso parte al Detox commitment (iniziativa parte della campagne Detox My Fashion di Greenpeace, che chiede ai brand l’impegno a eliminare 11 gruppi di “sostanze chimiche altamente pericolose”, a monitorare le acque reflue delle fabbriche, e a redigere un report annuale per tracciare i progressi in materia. Ne hanno preso parte ad esempio Zara, H&M e Benetton, ndr) più altri che non hanno ancora preso alcun impegno come Decathlon, Calzedonia e il rivenditore tedesco Peek & Cloppenburg. Sono emersi degli elementi comuni tra le varie iniziative.
Il rischio principale è di confondere i consumatori con etichette presentate come certificate ma che in realtà derivano da programmi di sostenibilità aziendali. Solitamente le certificazioni, come biologico, fair trade o eco-label, necessitano di una verifica di un “ente indipendente”, un organismo di terza parte, per accertare l’effettivo rispetto dei migliori standard ambientali e sociali. La mancanza di questo accertamento mette a repentaglio la veridicità delle dichiarazioni e le garanzie che portano con sé.
A ciò si aggiunge la parziale o totale assenza di meccanismi di tracciabilità delle filiere, per i consumatori è spesso difficile riuscire ad individuare da dove arrivano i propri capi, ad esempio l’ubicazione delle coltivazioni di cotone o della fabbrica dove avviene la tessitura. Alcuni marchi stanno pubblicando sui siti dei tracker per seguire la vita dei prodotti, tuttavia molti di loro sono ancora incompleti. Ne è un esempio il traceability tool di Calzedonia presente sulla pagina di ogni prodotto, se si va però ad indagare su dove avvenga effettivamente il “Made for Calzedonia” compare un generico “stiamo lavorando sulla tracciabilità della nostra filiera produttiva”.
Un altro tema è la falsa narrazione che viene fatta di circolarità che si basa, ad esempio, sull’approvvigionamento di materiali riciclati provenienti da altri settori industriali, specie quando si tratta di poliestere, attualmente la principale fibra usata nell’industria tessile, che punta a duplicare il suo uso per il 2030. Il poliestere è considerato un “materiale sostenibile” rispetto al cotone in quanto viene usata meno acqua per la sua produzione. Tuttavia, come tutti i materiali sintetici, dipende fondamentalmente dai combustibili fossili ed è responsabile del rilascio di microplastiche sia nella produzione, sia quando i capi vengono lavati dai consumatori. Il poliestere riciclato proviene principalmente da bottiglie in Pet, ad oggi però non esiste alcun sistema per il riciclo su larga scala delle fibre tessili, vale a dire quelle bottiglie -che hanno un tasso di riciclabilità in Europa in media del 50%- una volta divenute vestiti sono poi un rifiuto che difficilmente avrà una nuova vita. In particolar modo se il mix di fibre usato è misto, come il Polycotton o Policotone, diventa difficile da scindere in un processo di riciclo.
La circolarità promossa dall’industria della moda pone dunque l’accento sul riciclo più che una modifica dell’attuale ciclo produttivo, che continua a immettere nel mercato nuovi capi, mentre “rallentare il flusso dovrebbe avere la priorità -come si legge nel report-. La sovrapproduzione rende la chiusura del ciclo impossibile da raggiungere. Semplicemente colorare un modello di business lineare con i termini “riciclato” o “green” non potrà mai essere sostenibile.”
Ogni secondo un camion carico di vestiti viene mandato in discarica o bruciato
Infine i brand decidono spesso di affidarsi all’indice Higg per valutare la sostenibilità dei materiali, uno strumento, però, la cui parzialità è nota, e quando presentano dei miglioramenti nella catena produttiva, si focalizzano su un singolo aspetto/parametro della produzione, ad esempio riduzione del consumo di acqua o il riutilizzo/riciclo dei rifiuti pre-consumo. Insomma, molto spesso sono solo “una foglia di fico che nasconde una moltitudine di peccati”, afferma il report.
In particolare, tra le campagne dei vari brand analizzati, hanno ricevuto una valutazione positiva Coop “Naturaline” e Vaude “Green Shape”. Tra le peggiori ci sono Benetton “Green Bee”, C&A “Wear the Change”, Calzedonia “Eco Collection”, Decathlon “Ecodesign”, G-Star “Responsible materials”, H&M “Conscious”, Mango “Committed”, Peek & Cloppenburg “We Care Together”, Primark “Cares”, Tesco F&F “Made Mindfully”, Zara “Join Life”. Tschibo “Gut Gemacht” è l’unica ad aver ottenuto una valutazione neutra. Benetton, ad esempio, definisce sostenibili anche materiali notoriamente contestati come il poliestere riciclato dalle bottiglie in Pet, al posto che da altri capi del settore, il Polycotton, un mix di materiali difficile da riciclare, oltre che un generico “cotone sostenibile”. La tracciabilità della sua “filiera certificata” è tuttora vaga e non si capisce a quale certificazione faccia riferimento. Inoltre, c’è poca chiarezza su come vengano trattati i rifiuti post-consumo, né se venga garantito uno salario dignitoso ai lavoratori della catena di fornitura. Calzedonia invece non pubblica ancora la lista delle sostanze chimiche pericolose usate, tantomeno come gestisca le acque reflue.
Il problema alla base resta che il modello di business della fast fashion non è per sua stessa natura sostenibile. Si basa su una produttività lineare, e anche quando tenta di applicare delle alternative circolari manca il vero obiettivo: rallentare il flusso produttivo. “Il Greenwashing è un sintomo della malattia più grande: il sistema distruttivo della fast fashion lineare -ribadisce il report-. I marchi globali devono diventare fornitori di servizi piuttosto che solo produttori. Ciò comporta un cambiamento fondamentale, dove il successo non è più solo definito da volumi prodotti e venduti o dai profitti degli azionisti, ma dagli alti standard raggiunti nelle filiere produttive e nel trattamento dei rifiuti tessili, dove le “esternalità” come gli impatti sulla natura e sulle persone non sono più svalutati”.
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