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Ambiente / Approfondimento

“Fossil fashion”: la dipendenza dell’industria della moda dai combustibili fossili

L’uso massiccio di fibre sintetiche ha permesso al settore di raddoppiare in pochi anni la produzione. Rispetto a 15 anni fa viene acquistato il 60% dei vestiti in più, utilizzati la metà del necessario. E il 73% dei tessuti prodotti nel 2015 ha raggiunto in breve tempo discariche e inceneritori. Con impatti sull’ambiente e sui diritti dei lavoratori. Il report di Changing Markets Foundation

© Changing Markets Foundation

Dall’inizio del secolo il volume dei capi di abbigliamento prodotti è raddoppiato e ci si aspetta un ulteriore incremento che porterà da 62 milioni di tonnellate prodotte nel 2015 fino a 102 milioni di tonnellate entro il 2030. Un consumo smodato che si traduce in sfruttamento e inquinamento ambientale, segnala Changing Markets Foundation in un report pubblicato a inizio 2021 (“Fossil fashion. The hidden reliance of fast fashion on fossil fuels”). Quello che rende possibile questa enorme produzione tessile è l’impiego di fibre sintetiche. Prima tra tutte il poliestere, seguito da nylon, acrilico ed elastan: materiali estremamente economici, ottenuti dalla lavorazione di combustibili fossili e già presenti in oltre la metà dei tessuti.

L’utilizzo delle fibre sintetiche risulta essere, dunque, un elemento cardine grazie cui l’industria della moda, negli ultimi anni, è riuscita a stravolgere i propri tempi di produzione (realizzando anche 20 collezioni all’anno) e al tempo stesso le abitudini dei consumatori. Rispetto a 15 anni fa, oggi in media viene acquistato il 60% di vestiti in più, utilizzati la metà del necessario. Il 73% dei tessuti prodotti nel 2015 ha raggiunto in breve tempo le discariche (per il 70%) e gli inceneritori (per il restante 30%).

Urska Trunk, campaign manager di Changing Markets, porta un esempio allarmante. “Il risultato di un modello produttivo basato su fibre sintetiche di bassa qualità  si traduce in montagne di rifiuti tessili che finiscono nelle discariche di tutto il mondo al ritmo di un container al secondo”. Non solo. Una volta raggiunte le discariche, i vestiti sono destinati a degradarsi nel tempo, rilasciando sostanze inquinanti nel terreno e nelle acque sotterranee e metano in atmosfera. Per quanto riguarda le emissioni degli inceneritori (in rapida crescita in diversi Paesi del mondo, tra cui Cina, Regno Unito e Stati Uniti), queste comprendono un largo spettro di metalli pesanti, diossine, gas acidi e particolato, estremamente pericolosi per la salute umana.

“Le fibre sintetiche di cui sono composti i nostri abiti rilasciano microplastiche, non solo a fine vita ma anche quando vengono indossati o lavati. Queste sostanze -continua Trunk-  finiscono negli oceani, sono presenti nell’aria che respiriamo e nel cibo che mangiamo. E la situazione è destinata a peggiorare se l’industria della moda non smetterà di basare il proprio business sull’utilizzo di queste materie prime”. Il dato è allarmante: i vestiti rilasciano negli oceani mezzo milione di tonnellate di microfibre all’anno, pari a circa 50 miliardi di bottiglie di plastica.

L’industria della moda si configura oggi come una delle più inquinanti al mondo. I ricercatori dell’Agenzia europea dell’ambiente hanno inserito la produzione tessile tra le prime cause di inquinamento ambientale su scala globale, mettendo in evidenza come il settore consumi più energia rispetto a quelle del trasporto navale e aereo sommati e che entro il 2050 sarà responsabile, per circa il 25%, sul totale del bilancio di CO2: la quantità di anidride carbonica che può essere immessa in atmosfera prima che lo scostamento delle temperature medie globali raggiunga il “valore soglia” di +1.5°C.

Oltre all’impatto ambientale, l’impiego delle fibre sintetiche nell’industria della moda conduce a ripercussioni sociali drammatiche. Il poliestere ha dato vita alla fast fashion: un business veloce e, solo in apparenza, ottenibile a buon mercato.
L’Ong Labour behind the label ricorda infatti che “l’ottenimento del profitto dal fast fashion è possibile solo attraverso paghe minime, condizioni di lavoro non sicure e soppressione dei sindacati”, rispondendo così a Karl-Johan Persson, già amministratore delegato del marchio H&M, per il quale rinunciare al fast fashion per risolvere la crisi climatica porterebbe a terribili conseguenze sociali.

La pandemia da Covid-19 ha esacerbato questa situazione già critica e messo in risalto le profonde disuguaglianze sociali alla base dell’industria della moda. Negli ultimi mesi, molte aziende hanno repentinamente tagliato il numero di fornitori, smesso di pagare ordini già evasi e costretto i lavoratori ad accettare condizioni tutt’altro che tollerabili. Nel solo 2020 i debiti contratti dall’industria della moda nei confronti dei lavoratori di settore hanno raggiunto quota  16 miliardi di dollari.

I marchi utilizzano sempre più spesso claim relativi al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile ma, nella maggior parte dei casi, la meta è più che lontana. Uno studio recente condotto dagli analisti di mercato di Edited, ha evidenziato come gli articoli dichiarati “sostenibili” dalle aziende rappresentino il 3% di tutte le collezioni disponibili online negli Stati Uniti e in Regno Unito.

Per non parlare del riciclo, pressoché inesistente. I valori dei materiali tessili riciclati in nuove fibre variano dallo 0,1% all’1%. Questo perché, semplicemente, nel progetto di un capo di abbigliamento composto principalmente da fibre sintetiche non è previsto che l’articolo duri nel tempo o che possa essere riparato o riciclato a fine vita. In più, i capi di abbigliamento sono spesso costituiti da tessuti misti (cotone o lana in aggiunta ad un’alta percentuale di fibre sintetiche), incompatibili con la maggior parte delle tecnologie di riciclo disponibili. Tentativi di greenwashing che, oltre a non risolvere il problema, spostano l’attenzione dei consumatori e rischiano di peggiorare la situazione.

Per tentare di risolvere il problema occorre modificare del modello produttivo dell’industria della moda, ridurre il volume di capi prodotti, scegliere di utilizzare fibre naturali, restituire ai lavoratori dignità e un salario equo. La Commissione europea ha annunciato che nel corso del 2021 verranno pubblicate specifiche linee guida per le strategie future riguardanti il settore tessile. Obiettivo: superare la crisi indotta dalla pandemia in modo sostenibile, applicando principi dell’economia circolare. Passi da compiere presto.

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