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La medicina è anche cura sociale: l’esperienza delle Case della salute
I presidi territoriali mettono in pratica nuovi modelli di assistenza primaria: professionisti diversi lavorano insieme ponendo al centro le persone e non le patologie. Ma il modello finora è rimasto incompiuto. Il Pnrr avrebbe dovuto rafforzarle
La Valdera è un territorio collinare della provincia di Pisa a forte vocazione agricola. Stefano Moscardini, medico di medicina generale, lavora insieme ad altri colleghi in una zona del territorio che comprende sei piccoli Comuni e numerose frazioni: la densità di popolazione è bassa e l’ospedale di riferimento è a Pontedera, distante circa una ventina di chilometri. Ogni medico divide la propria attività tra i sei Comuni, ma a questa hanno aggiunto un altro servizio di assistenza: 15 anni fa hanno deciso di mettersi insieme per creare una Casa della salute (Cds), un unico centro di assistenza con ambulatori di medicina generale e specialistici, consultori familiari, servizi sociali e infermieri. Un modello di sanità territoriale innovativo che unisce all’assistenza sanitaria anche quella sociale. “Fino a quel momento ogni professionista lavorava in maniera autonoma, ma per rispondere ai problemi sempre più complessi dei cittadini era necessario lavorare insieme”, racconta Moscardini ad Altreconomia. In una struttura dell’Asl di Terricciola, uno dei Comuni della zona, operavano già alcuni infermieri, medici specialisti e assistenti sociali. I medici di famiglia proposero di portare all’interno anche la medicina generale. È nata così la Casa della salute “La Rosa”, diventata un punto di riferimento per le comunità della zona.
La sanità territoriale è uno dei punti principali del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), il piano di investimenti che l’Italia ha presentato a fine aprile alla Commissione europea per ottenere i quasi 200 miliardi di euro da utilizzare in risposta alla crisi economica provocata dalla pandemia di Covid-19. Nel discorso pronunciato al Senato per chiedere la fiducia, Mario Draghi ha parlato di “casa come principale luogo di cura”. Secondo il presidente del Consiglio, sulla base dell’esperienza della pandemia bisogna “aprire un confronto a tutto campo sulla riforma della nostra sanità. Il punto centrale è rafforzare e ridisegnare la sanità territoriale, realizzando una forte rete di servizi di base”. Secondo le intenzioni del governo 7,9 miliardi di euro saranno stanziati per “potenziare e riorientare […] un modello incentrato sui territori e sulle reti di assistenza socio-sanitaria”. La metà di questi fondi, quattro miliardi, saranno destinati all’attivazione di 2.575 “Case della comunità” entro il 2026 (Il Pnrr finale approvato dal Parlamento a fine aprile ha modificato questi numeri: sono sette i miliardi stanziati per “rafforzare le prestazioni erogate sul territorio grazie al potenziamento e alla creazione di strutture e presidi territoriali […], l’assistenza domiciliare, lo sviluppo della telemedicina e una più efficace integrazione con tutti i servizi socio-sanitari”. Meno di un terzo di questi, due miliardi di euro, sono destinati all’attivazione di 1.288 “Case della comunità” entro la metà del 2026, ndr). L’idea di “Case della comunità” rappresenta l’evoluzione del modello di Case della salute -come “La Rosa” a Terricciola- già presente in Italia fin dai primi anni 2000 quando per primo Bruno Benigni, ex assessore della Regione Toscana, trovò il modo di garantire un presidio sanitario innovativo al Comune di Castiglion Fiorentino, in provincia di Arezzo, dopo la chiusura dell’ospedale.
Nelle Case della salute si tiene un approccio che considera tutti i fattori che influenzano le condizioni di salute: sociali, ambientali, economici e culturali
“Oltre ai nostri ambulatori nei singoli Comuni, ora siamo in grado di offrire servizi in più, in uno spazio sempre aperto. Se un cittadino ha una colica, si è ferito o banalmente si accorge di sera che gli manca un farmaco, sa che può venire qui invece che fare chilometri per raggiungere il pronto soccorso”, aggiunge Moscardini, coordinatore della Cds “La Rosa”. All’interno della struttura si fa prevenzione e promozione della salute, chirurgia ambulatoriale e, in caso di urgenze, si facilita il trasferimento in ospedale. La differenza con un normale poliambulatorio è che i professionisti non operano in maniera autonoma. Lavorano in gruppo per comprendere i problemi del territorio e offrire in maniera coordinata risposte ai bisogni, sanitari e sociali, della comunità. I dati di uno studio realizzato dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa rivelano che nel 2017 proprio nel territorio della Cds “La Rosa” si è registrato il minor numero di accessi al pronto soccorso di tutta la Toscana. Anche in altre zone d’Italia il modello ha portato benefici. Un recente report della Regione Emilia-Romagna ha evidenziato che nei territori dove è presente una Cds gli accessi al pronto soccorso non urgenti sono diminuiti del 16,1% rispetto a dove non è presente una Cds. Quando all’interno delle Cds è presente un medico di famiglia, la riduzione arriva al 25,7%.
Il modello di cure nato in Toscana si ispira a quello dell’assistenza primaria alla salute proposto nel 1978 dall’Organizzazione mondiala della sanità con la dichiarazione di Alma Ata. L’invecchiamento della popolazione, l’aumento delle malattie croniche -come diabete, tumori o malattie cardiovascolari-, le difficoltà delle famiglie nell’assistere i familiari malati e la diminuzione dei posti in ospedale richiedevano un approccio diverso da quello basato sulle cure ospedaliere. Diventava necessario considerare tutti i fattori che influenzano le condizioni di salute delle persone: sociali, ambientali, economici e culturali.
“Il rapporto con il paziente non poteva più essere quello tradizionale del medico che aspetta che arrivi una persona con un problema”, racconta Gavino Maciocco, medico ed esperto di politiche sanitarie e salute globale. “Erano i professionisti socio-sanitari a dover intercettare i problemi di salute della popolazione, facendo prevenzione e promozione della salute”. Secondo il nuovo modello di cure primarie era necessario da un lato la collaborazione di più professionisti, dall’altro il coinvolgimento della comunità. L’obiettivo era mettere al centro le persone e non le patologie. Da questi nuovi principi nacque l’idea di creare un unico luogo di assistenza, punto di riferimento per il territorio, che prese il nome di “Casa della salute”. Un’idea che aveva convinto anche la ministra della Salute di allora, Livia Turco, che nel 2006 indicò la Casa della salute come un “grande obiettivo di legislatura”. Nella legge finanziaria del 2007 mise a disposizione delle Regioni 10 milioni di euro per avviare la sperimentazione in Italia. Solo poche, in particolare Toscana e Emilia-Romagna, hanno usufruito di questi fondi e dopo 14 anni il modello non ha ancora preso piede in Italia. Secondo un recente report del Servizio studi-Affari sociali della Camera dei deputati, in Italia ci sono 493 Cds. Quasi il 40% delle Regioni e Province autonome non ha nessun presidio.
Anche dove si è sviluppato di più, quello delle Cds è considerato un modello incompiuto e non ancora alternativo all’ospedale. “Spesso si cambia semplicemente nome ai poliambulatori mettendo la targa “Casa della salute”, senza modificare il modo di lavorare”, spiega Maciocco. Lo ha sottolineato anche uno studio condotto dal Centro per la ricerca economica applicata in sanità su 121 Cds: l’integrazione tra attività sanitarie e sociali è ancora poco praticata e non sempre è garantita l’apertura durante i festivi e gli orari serali.
Elena Rubatto, medica di famiglia a Torino, pensa che le Case della salute e in generale la sanità territoriale non possono fornire un servizio efficace al cittadino se non cambia il modello culturale di riferimento. “Se io medica di famiglia lavoro sotto lo stesso tetto con il cardiologo, l’infermiere e l’assistente sociale, ma non collaboriamo per trovare soluzioni comuni ai problemi dei cittadini o metodi per coinvolgerli attivamente nelle attività di prevenzione e promozione della salute, non stiamo offrendo risposte ai bisogni della comunità”. Con l’intento di riformare l’approccio alle cure primarie, Rubatto e altri professionisti che operano nel campo della salute hanno lanciato la campagna “Primary health care: now or never”. La loro proposta si ispira al modello di cure primarie adottato dal Portogallo nel 1990, un manifesto di 12 punti che comprende anche le Cds.
I professionisti non operano in maniera autonoma. Lavorano in gruppo per offrire in modo coordinato risposte ai bisogni, sanitari e sociali, della comunità
Secondo Rubatto l’organizzazione delle cure primarie all’interno delle future Case della salute finanziate dal Pnrr non deve seguire un modello standard da applicare ovunque. Il modello si deve adattare al territorio e alle sue esigenze: “Questo è fondamentale per ridurre le disuguaglianze in salute e facilitare l’accesso alle cure. In base a dove lavoro, un quartiere povero, un paese di montagna, il centro della città, le strategie da mettere in atto sono diverse. Se opero in una zona lontana dai centri abitati potrei aver bisogno di un radiologo nella Casa della salute perché l’ospedale è lontano decine di chilometri. In città forse no, perché l’ospedale più vicino è a due chilometri”. Anche in questo caso l’esempio viene dal Portogallo dove i gruppi di professionisti programmano con il distretto sanitario di riferimento gli obiettivi di salute da raggiungere, attraverso contratti della durata di tre anni, che permettono loro di avere strumenti, risorse e massima autonomia organizzativa. “Se un gruppo ritiene che per combattere il diabete si devono programmare interventi di educazione alimentare, avranno le risorse per poterli fare”, spiega Rubatto.
In Italia molte difficoltà sono legate anche ai tipi di contratto che legano i professionisti delle cure primarie alla struttura in cui operano. In una stessa Cds si possono trovare infermieri dipendenti del Sistema sanitario nazionale (Ssn), dipendenti comunali che si occupano dei servizi sociali e medici di famiglia che sono liberi professionisti convenzionati con il Ssn. “Noi proponiamo una nuova forma di contratto per i professionisti delle cure primarie, che riconosca una parte di retribuzione sulla base del raggiungimento di obiettivi di salute nella comunità e garantisca autonomia decisionale nel progettare e realizzare gli interventi necessari”, continua Rubatto. Secondo i promotori del manifesto inoltre, la riforma delle cure primarie deve essere affiancata da una riforma del percorso universitario, che inserisca le cure primarie come disciplina universitaria e istituisca una scuola di specializzazione in medicina generale. Questo stimolerebbe la ricerca scientifica sul tema, la produzione di dati e la diffusione di buone pratiche nei territori.
In questo momento gli attivisti della campagna “Primary health care: now or never” sono impegnati nella scrittura collettiva del “Libro azzurro”, ispirato al “Livre Azul” che ha posto le basi della via portoghese alle cure primarie. Nel testo verranno presentate in dettaglio le proposte per la riforma delle cure primarie italiane: “La pandemia ha messo in luce le carenze della sanità territoriale. Il sospetto è che la strada per un cambiamento sia ancora lunga. La politica prima o poi dovrà assumersi questa responsabilità e trovare il coraggio di andare contro l’indirizzo delle politiche sanitarie degli ultimi anni, basato prevalentemente su un modello pubblico-privato”, conclude Rubatto.
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