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La lotta dei pescatori di Gaza per poter prendere il mare
Fin dagli Accordi di Oslo del 1993 il governo israeliano ha progressivamente ristretto le acque della Striscia e di conseguenza le zone concesse alla pesca. Ma gli abitanti non si sono arresi e il 26 settembre, appena prima dell’ultima guerra, il sindacato del settore è stato riconosciuto come parte del Forum mondiale dei popoli della pesca
Sono almeno 30 anni che i pescatori della Striscia di Gaza non possono liberamente prendere il mare, a causa della scelta del governo di Israele di restringere progressivamente le acque territoriali dell’area. È tornato a denunciarlo il Transnational institute (Tni), centro internazionale indipendente, il 21 novembre scorso, in occasione della Giornata mondiale della pesca e dell’acquacoltura promossa dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) e dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo). “Esprimiamo la nostra solidarietà a Fatima, Mahmoud, Ahmed e alle migliaia di altri pescatori in Palestina che lottano per poter vivere e nutrire le loro comunità con dignità”, ha scritto Tni.
Il 26 settembre di quest’anno l’Unione generale dei lavoratori della pesca di Gaza è stata ammessa come membro del Forum mondiale dei popoli della pesca (Wffp), movimento sociale internazionale che unisce più di dieci milioni di persone che praticano questa attività su piccola scala e che include appartenenti a comunità indigene e a popolazioni marginalizzate. Il sindacato palestinese non rappresenta solamente i quattromila pescatori attivi nella Striscia, ma anche un numero maggiore di lavoratori, comprese le donne che riparano le attrezzature, puliscono il pesce e poi lo vendono ai mercati. “È stato un giorno di festa per il sindacato dei pescatori, fondato solo pochi mesi prima a Gaza con il sostegno dell’Unione dei comitati del lavoro agricolo (Uawc) -continua Tni-. È stato anche un momento per il Wffp per riconfermare la sua solidarietà internazionale agli abitanti di Gaza. Meno di due settimane dopo, però, le bombe hanno iniziato a cadere”.
Il 21 ottobre il Wffp ha approvato una risoluzione in cui esprime solidarietà alla popolazione palestinese e condanna le politiche di Israele. “L’occupazione illegale in corso in violazione del diritto internazionale, le demolizioni di abitazioni, la costruzione di sistemi di apartheid, il sostegno allo sviluppo di insediamenti illegali, il prelievo di risorse vitali come l’acqua, il furto della cultura e del patrimonio palestinese per cancellare i profondi legami di quel popolo con le proprie terre: i crimini e le atrocità sono troppo numerosi per essere citati brevemente”, si legge nel comunicato.
Ma le difficoltà degli abitanti di Gaza nell’accedere al mare e alla pesca sono iniziate ben prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre e della guerra iniziata subito dopo. Tni riprende le interviste e le storie raccontate da Ahmed e Fatima (i cui nomi sono stati cambiati per motivi di sicurezza), due leader del sindacato dei pescatori di Gaza, intervistati tre anni prima. “Le loro storie impallidiscono rispetto agli attacchi genocidi condotti dalle forze di occupazione israeliane a partire dall’8 ottobre 2023 -annota Tni-, eppure ci ricordano la lunga lotta degli abitanti di Gaza. In tutto il mondo i pescatori si chiedono se torneranno a casa con o senza pesce. A Gaza, già nel 2020, la preoccupazione principale era la nostra sicurezza”.
Parlando dei suoi figli, anch’essi pescatori, Ahmed aveva spiegato che “la cosa più importante è la loro sicurezza e che tornino da me. Questo vale per tutti i padri e le madri della Striscia”. Fatima ha accompagnato per la prima volta suo padre all’età di sei anni e ha iniziato a pescare lei stessa all’età di 13, prima degli attacchi di Israele a Gaza nel 2008. Descrive una situazione simile: “Le forze armate israeliane non vogliono che andiamo in mare. Pensano che sparandoci addosso ci spaventeranno. Ma noi diventiamo solo più determinati a continuare a pescare perché non c’è alternativa per portare il cibo in tavola”.
A queste parole fa eco Mahmoud, che da due decenni sostiene i lavoratori del settore ittico di Gaza. In numerose conversazioni dal 2017 ha spiegato come le loro zone di pesca siano state progressivamente ristrette dall’occupazione israeliana. Inizialmente le loro acque di competenza corrispondevano a 200 miglia nautiche (circa 370 chilometri) concordate a livello internazionale sulla base della Convenzione delle Nazioni Unite sul territorio marino sovrano per gli Stati costieri. Ma con i contestati Accordi di Oslo del 1993 questa distanza è stata ridotta a venti miglia e ridimensionata nuovamente a inizio 2000 a nove miglia. Fino a scendere alle sole sei miglia fissate poco prima del fatidico 7 ottobre. Ma rimanere all’interno dei confini designati non garantisce sempre la sicurezza. “In tutti questi anni, anche all’interno delle loro zone, i pescatori sono stati colpiti, feriti o uccisi e le barche e gli attrezzi da pesca sono stati distrutti -conclude Tni-. L’incredibile brutalità degli attacchi di ottobre e novembre 2023 segue e si basa su questi decenni di oppressione, violenza ed espropriazione”.
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