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Diritti / Approfondimento

La legge sulla cittadinanza compie 30 anni. Quanto è costato non averla cambiata

Sharon McCutcheon - Unsplash

Il 5 febbraio 1992 venivano emanate le “Nuove norme sulla cittadinanza”. I tentativi intrapresi nel corso degli ultimi anni per modificare la legge 91 e il suo dispositivo saldamente legato al requisito di “sangue” non hanno avuto successo. Le ricadute sociali e culturali sono state fortemente negative

Le antiquate “Nuove norme sulla cittadinanza” in Italia compiono 30 anni. Colpisce sempre il titolo della legge 91, emanata il 5 febbraio 1992 dopo la presentazione del testo da parte dell’allora ministro degli Esteri Giulio Andreotti il 13 dicembre 1988. Il mondo è profondamente cambiato ma -per citare un attualissimo intervento di Nazzarena Zorzella e Rosalba Picerno dal volume “Da residenti a cittadini”, realizzato nel giugno 2012 da Cittalia Fondazione Studi e Ricerche dell’Anci e curato da Monia Giovannetti e Veronica Nicotra- nel nostro Paese è ancora quell’impianto normativo a stabilire “il se, il quando, il come una persona straniera può diventare cittadina italiana”. Prima dell’entrata in vigore (16 agosto 1992), le regole del gioco erano quelle risalenti addirittura al Codice civile del 1865 (integrate parzialmente nel 1906) e alla legge 555 del 1912.

L’impianto del 1992 è così rimasto permeato da quella che Antonello Ciervo ha definito “una concezione totalitaria della cittadinanza”, saldamente ancorata ai “dispositivi di potere novecenteschi” del sangue (ius sanguinis, da sempre favorito dal legislatore), del suolo (ius soli), della nazione e della sovranità (dal prezioso volume “Ius migrandi. Trent’anni di politiche e legislazione sull’immigrazione in Italia”, Franco Angeli, 2020).

Tutto ciò fa sì che in Italia oggi sia “sufficiente avere in qualunque Paese estero un discendente italiano per diventare a propria volta cittadini italiani, anche in assenza di un legame sostanziale e culturale con il nostro Paese” (come ha spiegato Gianfranco Schiavone su Altreconomia). Un privilegio scandaloso se confrontato alle corse a ostacoli che attendono ad esempio l’acquisizione per naturalizzazione (residenza almeno decennale, possesso di requisiti di reddito e alloggio, iter amministrativo pluriennale) o se si è nati in Italia da genitori stranieri (si fa la domanda entro un anno dal compimento del diciottesimo anno e solo se si dimostra di aver risieduto legalmente in Italia senza interruzioni sin dalla nascita). Schiavone ha ricordato quindi che “basta non essere nati in Italia, anche se vi si abita fin dalla tenera età, o avere vissuto all’estero per un breve periodo o ancora che i genitori (e di conseguenza il figlio) siano stati irregolari per un periodo anche breve, e il neo maggiorenne non solo non sarà italiano ma, se non ha gli stringenti requisiti per ottenere un permesso di soggiorno per studio o lavoro, può perdere il permesso di soggiorno, divenire ‘clandestino’ ed essere espulso verso ciò che burocraticamente viene definito il Paese di origine, luogo che magari lo sventurato non ha neppure mai visto nella sua vita”.

I tentativi intrapresi nel corso degli ultimi anni per modificare la legge del 1992 non hanno mai avuto esito positivo, come ricorda Ciervo, e le conseguenze sociali, culturali ed economiche sono state fortemente negative. In particolare, ma non solo, per gli oltre 500.000 minorenni nati in Italia da genitori stranieri (cioè il 60% dei circa 900.000 minori stranieri residenti nel Paese e il 7% dell’intera popolazione scolastica). Quantificare quelle ricadute attraverso indicatori puntuali è complicato.

Quanto è “costato” ad esempio il “muro di silenzio” che si è trovato davanti Abdelhakim Elliasmine, classe 1999, da oltre 15 anni in Italia e figlio di genitori di nazionalità marocchina? A 18 anni ha presentato la richiesta di cittadinanza. Se l’è vista respingere “perché dal reddito familiare mancavano 300 euro”. Dopo quattro anni stava ancora attendendo “fiducioso”. La sua storia ha raggiunto l’undicesima pagina del Corriere della Serain pieno agosto 2021– perché si trattava di uno straordinario mezzofondista, c’era il traino delle Olimpiadi e dominava la retorica dei “campioni che non ci possiamo far sottrarre”. Ma quanti altri hanno patito e patiscono come lui? E per loro a quanto ammonta il danno?

La cittadinanza formale non garantisce di per sé la parità di trattamento, è verissimo, ma rimane comunque un pezzo insostituibile per la costruzione di una società equa e solidale. Quanto “costa” invece la mortificazione del desiderio di partecipazione e del senso di appartenenza di decine di migliaia di persone? A quanti punti di Pil equivalgono l’uscita dalla sudditanza e dalla precarietà giuridica, l’eliminazione delle “dissonanze” o la riduzione dei rischi di “alterità” sociali (per citare ancora il volume “Da residenti a cittadini”)? Come misurare la continua perdita sociale, culturale ed economica rappresentata da decine di migliaia di ragazze e ragazzi che hanno deciso di andarsene da un Paese che li ha fatti sentire non compresi?

Anche il tempo può disarticolare un diritto. Pensiamo ad esempio alla durata dell’istruttoria delle richieste di cittadinanza, cioè al termine di definizione dei procedimenti. Il primo “decreto Salvini” (113/2018, convertito nella legge 132/2018) lo aveva portato a mo’ di vendetta dai (già eterni) due anni dalla data di presentazione della domanda a quattro. La legge 173 del 18 dicembre 2020 lo ha riportato poi a “ventiquattro mesi prorogabili fino al massimo di trentasei” (applicandolo alle domande di cittadinanza presentate dalla data di entrata in vigore della legge di conversione). Resta comunque una durata abnorme, peraltro soggetta all’estrema discrezionalità del ministero dell’Interno. Valessero le stesse regole per il rilascio di qualsiasi altro provvedimento amministrativo (oggi tra 60 e 90 giorni) e in Italia ci sarebbero le rivolte di piazza. Quanto costa questa disparità e l’aver condannato migliaia di persone a un’indeterminata “anticamera dei diritti” (altra espressione efficace tratta dalle interviste riportate in “Da residenti a cittadini”)?

Intanto nel corso del 2020 gli stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana sono stati 131.803, il 4% in più rispetto al 2019. Nel diffondere i dati a fine ottobre 2021, l’Istat ha salutato positivamente questo “aumento” ricorrendo all’espressione “nonostante la pandemia”. In realtà avrebbe dovuto aggiungere “nonostante l’attuale legge sulla cittadinanza”. Non lo ha fatto anche perché Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat dal febbraio 2019, ha più volte difeso pubblicamente la 91/1992. “Una legge che sembra funzionare piuttosto bene”, scrisse su Il Sole 24 Ore il 3 luglio 2017, nel tentativo di spegnere le prospettive di riforma allora incoraggianti. Blangiardo arrivò a sostenere l’esistenza di una “incognita legata al destino di un bambino che è diventato italiano ma vive con genitori e fratelli di altra nazionalità. […] Che relazione si instaura tra familiari di nazionalità diversa? Siamo sicuri che i genitori, cui peraltro è affidato il compito di attivare la richiesta, sia proprio questo che vogliono?”.
Una questione di giustizia venne così derubricata a una “conquista di uno ‘status’ che può rendere un bambino diverso”, un nuovo “minore scompagnato” (sic). È pressoché nulla la speranza che l’attuale Parlamento sia in grado di riformare la legge sulla cittadinanza. Un immobilismo regressivo che costa tantissimo. Magari l’Istat volesse misurarne le conseguenze come si deve.

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