Ambiente / Approfondimento
La “caccia al lupo” ha già fallito ma la propaganda non ha perso il vizio
L’Unione europea potrebbe degradare lo status di “specie particolarmente protetta” riconosciuto al predatore, fondamentale per l’equilibrio di ecosistemi sani. Ma le uccisioni indiscriminate non sono la soluzione. Ecco perché
“Penetrata S. M. della sventura occorsa ad alcuni individui rimasti vittima dell’ingorda ferocia de’ lupi detti della Svizzera ricomparsi già nel corrente anno in qualche Provincia de’ Regj Stati, determinò nel suo sensibile, e magnanimo cuore di promuoverne radicalmente lo sterminio […]”. Dal “Manifesto per aumento di premio agl’uccisori di lupi feroci”, Torino, 6 giugno 1817
Periodicamente si annuncia l’imminente apertura della caccia al lupo. Segue dibattito tra opposti estremismi alimentato da luoghi comuni, slogan indimostrati, terrori medievali e pochi dati concreti. Siccome il lupo è anche una questione politica e nelle propagande elettorali che ci accompagneranno fino a giugno (quando si andrà al voto per il rinnovo del Parlamento europeo) verrà gettato nella mischia senza pietà, provo a mettere in fila qualche considerazione documentata. A futura memoria.
Cominciamo dal principio, lo status giuridico. Oggi il lupo è classificato come “specie particolarmente protetta” a partire dalla Convenzione di Berna e dalla Direttiva habitat, disposizioni ratificate dall’Italia oltre 40 anni fa. Non è sempre stato così, anzi. Per secoli e fino al 1977 era “animale nocivo”, quindi ammazzabile con qualsiasi mezzo: fino agli anni Sessanta lo Stato distribuiva persino la stricnina per preparare esche avvelenate. In quegli anni in Italia sopravvivevano un paio di centinaia di lupi, segregati nelle aree più selvagge del Centro-Sud. Sull’intero arco alpino erano stati sterminati agli inizi del Novecento.
Oggi sono probabilmente quattromila, hanno ricolonizzato tutta la Penisola, dalla Puglia al Veneto, spinti dalla loro fortissima capacità di dispersione giovanile e favoriti dall’enorme aumento di prede selvatiche (cervi, caprioli, cinghiali ma anche nutrie), dalle nuove leggi e soprattutto dall’abbandono umano di montagne e colline iniziato alla fine della Seconda guerra mondiale che ha innescato la rinaturalizzazione di vaste porzioni periferiche del nostro territorio, a partire dai boschi. Quattro fattori ben noti, tre dei quali provocati da azioni di Homo sapiens italicus e solo uno da Canis lupus italicus.
Di solito a questo punto qualcuno scuote la testa: “Va bene tutto, ma i nostri nonni che hanno eliminato i lupi, non potrebbero aver avuto ragione? Perché noi non potremmo ritornare a una situazione come quella, senza nessuno in giro?”.
“È sensato proteggere i lupi? Dal punto di vista biologico, sì. Sono superpredatori all’apice delle piramidi alimentari, efficientissimi equilibratori dei gradini sottostanti”
I nostri antenati, però, non hanno usato soltanto le pallottole, come ci si immagina oggi. Hanno agito, inconsapevolmente, su tre fronti. Primo: hanno distrutto la casa di questi predatori, a partire dal Basso Medioevo hanno tagliato continuamente i boschi per avere pascoli, coltivi e legname da costruzione e da ardere. Secondo: hanno eliminato il loro cibo, ammazzando cervi, caprioli e cinghiali sia perché brucavano l’erba delle mucche sia perché erano proteine utili a integrare una dieta a base di rape, castagne e polenta.
L’ultimo fattore è stato l’uccisione diretta perpetrata, ricordiamocelo, non tanto con i fucili (che erano imprecisi e fallaci, costosi e irraggiungibili per gran parte dei montanari e dei contadini) quanto piuttosto con tagliole, trappole di ogni forma e acuminatezza, bocconi avvelenati, cattura dei cuccioli dentro le tane che venivano immediatamente uccisi sbattendoli contro le rocce o lanciandoli nei precipizi. Chi oggi invoca la caccia diretta come “soluzione finale” dimentica che in passato questa ha avuto un ruolo secondario, anche se esaltato, come sempre, dall’aneddotica venatoria maschile. I nostri avi non potevano conoscere l’insostituibile funzione del lupo e degli altri predatori nel mantenere gli equilibri degli ecosistemi naturali. Questa ignoranza giustifica storicamente il loro operato ma non permette a noi (che “abbiamo studiato”) di fare altrettanto.
Oggi il lupo è un animale protetto a livello internazionale ma questa forma di tutela è una decisione umana, un provvedimento politico, potremmo dire una scelta democratica. Nell’eventualità che in futuro si decreti altrettanto democraticamente di modificarla, dobbiamo essere consapevoli che -ammesso e non concesso che volessimo estirparli- non basterebbero le fucilate: dovremmo ricominciare a impiegare tutti i metodi sopra descritti. Almeno quelli legali, visto che tagliole, trappole, lacci ed esche velenose sono fuorilegge (e ci mancherebbe).
Dovremmo prima di tutto eliminare nuovamente tutti i cervi, i caprioli e i cinghiali, con buona pace di cacciatori, animalisti e legislazione di settore. Contemporaneamente dovremmo disboscare ogni collina, montagna e prealpe d’Italia, con buona pace di altre leggi, del dissesto idrogeologico e dell’anidride carbonica che invece di essere assorbita verrebbe emessa in quantità ancora maggiori. Senza dimenticare che i nostri nonni sono sì riusciti a sradicare questi predatori, ma ci hanno messo circa 400 anni.
A marzo 2023 l’Unione europea ne aveva confermato lo status di protezione ma, pressata da molte lobbies in vista delle elezioni di giugno, a dicembre ha deciso di valutare un eventuale ripensamento. Le malelingue suggeriscono che il pony di Ursula von der Leyen, sbranato dai lupi, c’entri qualcosa. Non posso credere che la presidente della Commissione europea sia affetta da una così meschina sindrome “Nimby” (Not in my backyard): viva il lupo, basta che stia lontano da me. È sensato proteggere i lupi? Dal punto di vista biologico, sì, senza dubbio. Sono superpredatori all’apice delle piramidi alimentari, efficientissimi equilibratori di tutti i gradini sottostanti (per gli indigeni dell’America settentrionale erano “i medici dei caribù”).
“Quando viene praticata come unico strumento di controllo su altre specie, non funziona. La caccia indiscriminata è una risposta fintamente risolutiva”
La loro presenza stabile è testimonianza di ambienti naturali e sani nonostante tutti guasti che possiamo provocare. Sono necessari? Sì. Possiamo tornare indietro? No. Possiamo migliorare le situazioni di conflitto? Sì, a patto che tutti i protagonisti (amministratori, tecnici, sindacalisti, escursionisti, turisti, ciclisti, tartufai, cacciatori, pastori, blogger, giornalisti) siano disposti a cambiare abitudini, cosa che non piace a nessuno di noi. Il lupo risolve problemi con metodi spicci e poco piacevoli. Mangia bestiame se non custodito, costringe i pastori a stress prolungati e turni ininterrotti, obbliga gli escursionisti a temere i cani da difesa, gli amministratori a rispondere alle paure dei cittadini, i ricercatori a controllare esemplari troppo vicini alle case o addirittura pericolosi.
Allora, adesso che i lupi italiani non rischiano più di estinguersi, possiamo contenere il loro numero abbattendoli? Prima di tutto andrebbe affrontato un secondo principio, molto più complicato e dirimente, quello etico-filosofico: abbiamo diritto a uccidere gli animali? Esclusi i casi di necessità o di sopravvivenza (perché ci attaccano o perché siamo costretti a nutrirci), che in Occidente non si verificano da oltre un secolo, chi o che cosa ci autorizza a risolvere i conflitti di coesistenza con carabine, trappole o macelli? I molti cittadini che adottano diete vegetariane o vegane propongono una risposta reale, non da tutti condivisa ma certamente coerente. Personalmente non ho certezze da offrire ma trovo che l’assenza di questo pre-requisito fondamentale nel dibattito “caccia sì-caccia no” lo renda monco in partenza. E poco importa che si tratti di lupi o ghiri, di passeri, cormorani o nutrie (tutte specie per le quali in qualche provincia italiana si adottano piani di contenimento).
Se in qualche modo oltrepassiamo questo scoglio, allora potremmo valutare non tanto di aprire la caccia indiscriminata a tutti i lupi ma -una volta declassata la tutela- prelevare alcuni esemplari o alcune famiglie nelle aree dove la coesistenza con le attività umane è meno sostenibile.
Un elemento da considerare è che la protezione di una popolazione selvatica non comporta in automatico quella di tutti e ciascun individuo della medesima popolazione. Nel caso di questi predatori, molti specialisti -io sono tra questi- accetterebbero di sacrificare qualche esemplare o qualche branco particolarmente problematico (perché confidenti con l’uomo, perché hanno scelto una zona troppo antropizzata o per altre ragioni documentate) purché lo sterminio non venga generalizzato a tutti i lupi, moltissimi dei quali causano danni nulli o sopportabili. Lo faremmo a malincuore, beninteso, stiamo dal lato della conservazione, ma in nome di un interesse più grande si potrebbe accettare.
D’altronde, le stesse norme europee e nazionali che stabiliscono lo status di protezione del lupo ne prevedono anche abbattimenti in deroga al verificarsi di determinate condizioni non altrimenti risolvibili “nell’interesse di salute e sicurezza pubbliche, o per altre importanti ragioni di interesse pubblico, incluse quelle di natura sociale o economica e di conseguenze benefiche di primaria importanza per l’ambiente”.
Invece chi ha adottato la caccia tout court come sistema di riduzione dei danni al bestiame, ha verificato che questa non funziona: la Francia viene spesso invocata come esempio di buona gestione perché abbatte ogni anno quasi un centinaio di questi animali ma non vede diminuire le predazioni sui domestici. I biologi e gli etologi conoscono la spiegazione: bisognerebbe evitare di ammazzare gli alpha, maschio o femmina che siano, perché guidano il nucleo familiare. Di solito, invece, proprio perché conducono la fila dei loro figli, sono i primi a essere avvistati e quindi a essere uccisi. E allora i giovani, inesperti e senza allenatori, ancora incapaci di cacciare e uccidere un cervo, si rivolgono per fame alle prede più facili: proprio le pecore.
Inoltre, se un’area o un’azienda sono attrattive per certi lupi, eliminarli senza modificare il contesto causerà l’arrivo di nuovi lupi poco tempo dopo. Bisogna anche tenere presente che quando viene praticata come unico strumento di controllo su altre specie, non funziona. La caccia indiscriminata è la risposta facile, fallocratica e fintamente risolutiva a una situazione esasperata di fauna selvatica. Un esempio chiaro -se si ha l’onestà di leggerlo in controluce- è quello dei cinghiali, la cui popolazione viene affidata da decenni solo alla gestione venatoria che ha interesse a massimizzare ogni uscita. Vengono quindi abbattuti gli individui adulti soprattutto maschi, che garantiscono diverse decine di chilogrammi di carne, quando i cacciatori dovrebbero invece prelevare i giovani, come se fossero predatori naturali altrimenti, a lungo andare, le strutture familiari dei cinghiali si disgregano, i giovani si allontanano troppo, le femmine vanno in estro e si riproducono a due anni anziché a quattro.
Un disastro gestionale sotto gli occhi di tutti, prima ancora dell’esplosione della peste suina africana. Abbattimenti così selettivi e intelligenti, però, sono faticosi. Comportano monitoraggi mirati, indagini sulle modalità di conduzione degli alpeggi e sulla disponibilità di attrattivi per i lupi vicino a paesi e città, verifiche sull’efficacia locale di ogni intervento, perfino la possibilità di smettere le uccisioni al raggiungimento di un numero minimo. Lavori impegnativi, costosi e spesso poco manipolabili. Un sistema che non “paga” in ritorno elettorale (l’unico che sembra contare). Meglio quindi aprire la caccia e sguinzagliare le truppe armate. Per essere onesti, allora, cambiamoci nome specifico in “Insapiens”.
Luca Giunti è guardiaparco delle Alpi Cozie, autore di libri e articoli scientifici e divulgativi
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