Esteri / Reportage
Intrappolati a Calais. Vite sospese di chi sogna l’Inghilterra
Dopo aver attraversato la rotta balcanica o il Mediterraneo, le persone in transito -inclusi cittadini afghani- sono costrette a vivere in luoghi precari in attesa di passare la Manica. Tra gli sgomberi continui della polizia
Yousef è un migrante iraniano che ha lasciato il suo Paese più di 12 anni fa. Ha vissuto per quattro anni in Germania e parla perfettamente tedesco. Viveva assieme alla sua fidanzata e con lei possedeva tante cose, ma sfortunatamente nessun permesso che gli consentisse di rimanere nel Paese a lungo termine. Quando Yousef è dovuto rientrare in Iran, a causa delle cattive condizioni di salute della madre, gli è stato impossibile tornare legalmente in Germania e a quel punto è ripartito nello stesso modo illegale con il quale si era messo in viaggio la prima volta, ma questa volta con una destinazione diversa: l’Inghilterra.
Nell’estate 2021, dopo anni passati in viaggio per raggiungere l’Europa, è alla sua ultima tappa: “Domani o al massimo il giorno dopo, non lo so di preciso. Dobbiamo aspettare una telefonata, poi prenderemo una barca e andremo”. In attesa di imbarcarsi per l’Inghilterra, Yousef vive in uno dei tanti accampamenti informali presenti a Calais, nel Nord della Francia.
A giugno 2021, nell’area costiera che va da Calais a Dunkerque sono stati censiti nove campi informali in cui vivevano circa tremila persone. Gli accampamenti informali si trovano sia all’interno di edifici abbandonati e fatiscenti -come il cosiddetto Unicorn camp, all’interno dei capannoni abbandonati dell’ex fabbrica di magnesia, nell’area dell’ospedale di Calais- sia nelle aree verdi nei pressi delle città, come la jungle nata di fronte al centro commerciale di Grande-Synthe, un Comune a una trentina di chilometri da Calais. Al loro interno, i migranti vivono in tende e in ripari di fortuna, cucinando il cibo che loro stessi comprano o che viene donato dalle tante associazioni che operano sul territorio, le quali oltre al cibo, forniscono anche beni di prima necessità come sapone, vestiti e, in qualche caso, anche materiale da campeggio.
Nonostante l’elevato numero di abitanti -uomini single, giovani donne e tante famiglie con bambini- provenienti da Afghanistan, Iran, Iraq, India, Vietnam, Eritrea, Somalia, Gambia, Ghana, Guinea, nessuno di questi campi è, e mai diventerà, un campo ufficiale.
Il governo francese vuole evitare la creazione di una nuova jungle simile a quella smantellata a Calais nel 2016, dove si stimava vivessero più di ottomila persone. Sulla base di queste direttive, polizia, gendarmeria e forze speciali periodicamente costringono i migranti a spostarsi dai campi, distruggendo le tende e i loro fragili ripari.
Dilpak è una madre single irachena che vive nella jungle di Grande-Synthe da tre giorni. Oggi lei e la sua famiglia, come tante altre residenti nel campo, sono state forzate a spostarsi dalla boscaglia ombreggiata, nella quale si erano stabilite, per trasferirsi in un caldo e soleggiato spazio aperto. Spesso con frequenza di 48 ore, autorità e gruppi di pulizia si recano nelle aree designate e, senza violenza fisica, sfrattano le persone, spostandole da un’area all’altra, spesso senza una chiara ragione e senza fornire valide motivazioni. Questo modo di agire delle autorità francesi porta i migranti a non capire le motivazioni di tali decisioni e amplifica enormemente sconforto e frustrazione.
“Domani o al massimo il giorno dopo, non lo so di preciso. Dobbiamo aspettare una telefonata, poi prenderemo una barca e andremo” – Yousef
Jemal viene dall’Eritrea, ha 24 anni. Non ha un’istruzione scolastica, ma nonostante questo parla in perfetto inglese. “Ho guardato tanti film con sottotitoli in inglese e ho studiato tanto sul vocabolario che porto con me -racconta-. Se vuoi lavorare, quando arrivi in Inghilterra devi conoscere la lingua!”. Vive in una piccola comunità di connazionali, circa una ventina di uomini accampati con le loro tende ai bordi della strada ad alto scorrimento che porta a uno dei molti parcheggi per i camion di Calais. Ogni notte alcuni di loro tentano di nascondersi dentro o sotto uno di questi mezzi nella speranza di raggiungere il Regno Unito attraverso l’EuroTunnel: i poco più di 50 chilometri di strada sottomarina che dalla Francia attraversano il Canale della Manica e si fermano nella stazione di Cheriton, nel Kent.
Alte recinzioni con filo spinato, pattuglie di polizia e un imponente sistema di sicurezza rendono questa opzione molto difficile da realizzare. Jemal, come molti dei suoi amici eritrei, si trova a Calais dall’agosto 2020. Quasi un anno di tentativi senza risultato, ma con grandi speranze. Nonostante l’Inghilterra abbia lasciato l’Unione europea, i migranti puntano ancora a raggiungere il Paese: la loro speranza è quella di ottenere un ricollocamento in uno dei Paesi del Commonwealth.
Le persone raggruppate in questo collo di bottiglia francese vogliono raggiungere l’Inghilterra, ma occorre distinguerli in due grandi gruppi: del primo fanno parte coloro che provengono dalla rotta balcanica o da quella libica. Persone in viaggio da cinque o sei anni, fisicamente stanchi ma fortemente motivati. Il secondo gruppo è invece composto da tutti quei migranti -in gran parte curdi ed eritrei- che vivono in Europa da anni ma che, a causa di risposte negative alle loro domande di asilo, non hanno nessuna possibilità di rimanere legalmente e rischiano di essere rimpatriati nel loro Paese d’origine oppure, in base a quanto previsto dal Regolamento Dublino, nel Paese d’ingresso all’Unione europea e dove hanno lasciato le loro impronte digitali. In entrambi i casi, i membri dei due gruppi pagheranno tra i due e i tremila euro ai trafficanti per attraversare la Manica su dei gommoni.
Ogni notte, invece di chiudere gli occhi per dormire e sognare, piccoli gruppi di migranti saliranno su instabili gommoni e partiranno contemporaneamente da diverse spiagge sperando di non essere scoperti dalla polizia. La mattina successiva molti di loro avranno raggiunto il loro sogno a occhi aperti.
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