Diritti / Approfondimento
Industria tessile: i diritti negati nelle fabbriche dell’India
Condizioni di lavoro disumane, salari insufficienti e abusi. Una recente ricerca della rete “Fair Wear” ha analizzato i tre maggiori hub di produzione del Paese: Delhi, Bangalore e Tirupur, poli dei vestiti e delle magliette a basso costo. Il quadro dettagliato di un settore che impiega 45 milioni di persone
Dal 2014 a metà 2019, 106 giovani ragazze si sono suicidate per lo stress e i ritmi disumani cui sono costrette a lavorare nelle fabbriche tessili indiane, quelle che producono il filo per cucire vestiti o magliette della moda a basso costo. È quanto emerge da una recente ricerca pubblicata da Fair Wear, una multistakeholder initiative che lavora con marchi di vestiario, fabbriche, sindacati, Ong e governi per migliorare le condizioni di lavoro nell’industria dell’abbigliamento. Tra i membri di Fair Wear ci sono 130 brand medio piccoli europei che producono in 160 fabbriche sparse nel subcontinente e sostengono un modello diverso di produrre vestiti, che non passi necessariamente per lo sfruttamento dei lavoratori nelle fabbriche di India, Cina o Bangladesh.
La ricerca evidenzia gli abusi esistenti o potenziali nell’industria del vestiario in India, analizzando le condizioni di lavoro nei tre maggiori hub di produzione: Delhi NCR al nord, e Bangalore e Tirupur al Sud. È l’unica pubblicazione fino a ora a dare un quadro completo sulle condizioni lavorative in tutta la filiera indiana, un settore che impiega 45 milioni di persone. I dati raccolti restituiscono l’immagine di fabbriche in cui i diritti lavorativi sono sistematicamente calpestati: giovani donne, lavoratori migranti e basse caste lavorano in condizioni disumane, per raggiungere target impossibili, senza diritti né garanzie sociali.
Gli abusi sul lavoro nelle fabbriche indiane sono stati individuati tramite desk research, ricerca sul campo con il coinvolgimento di 20 interlocutori, associazioni di categoria, sindacati, Ong e autorità pubbliche, oltre agli audit fatti da Fair Wear e ai reclami ricevuti dai lavoratori tramite l’hot line ad hoc. La pubblicazione si rivolge ai brand per portarli a conoscenza degli impatti che hanno sui diritti lavorativi e per farli agire secondo i principi delle Nazioni Unite su diritti umani e aziende (UNGPs), che dovrebbero rappresentare il punto di riferimento in materia. È emerso che alcuni abusi attraversano tutta la filiera, da Nord a Sud, come le condizioni di sicurezza sul lavoro o la mancanza di sindacati, e quindi di accordi collettivi. Un altro fattore costante rilevato nella filiera è il forced overtime, lo straordinario non retribuito, uno degli indicatori di lavoro forzato dell’International Labour Organization (ILO). Sotto altri aspetti dai tre hub presi in analisi emergono importanti differenze strutturali e geografiche.
A Delhi, ad esempio, dove si producono principalmente abiti in cotone e ricami, oltre il 70 per cento dei lavoratori a contratto in campo tessile sono immigrati dalle zone rurali, in gran parte uomini. Il salario minimo, quasi mai rispettato, è calcolato sulle 15mila rupie (200 euro circa) al mese che tuttavia non corrisponde ad un salario dignitoso, sulle 23mila rupie. I target di produzione giornalieri sono irraggiungibili, per cui spesso lo straordinario non è proprio calcolato o comunque pagato a tasso singolo invece che doppio. I lavoratori, a differenza del Sud, non vivono negli ostelli ma affittano delle stanze, i quarters, dove l’appartenenza castale determina ulteriori discriminazioni e abusi dei bramini (alte caste) sulle basse caste.
La filiera di Bangalore, invece, specializzata in prodotti finiti -come jeans e giacche- strutturalmente conta molti più lavoratori permanenti, per lo più donne giovani, migranti, dalit o adivasi (tribali), che vivono in ostelli vicino alle fabbriche. Ong e sindacati riferiscono che cinque tra gli undici indicatori ILO del lavoro forzato sono riscontrabili nell’industria tessile di Bangalore. Condizioni di lavoro abusive, overtime non pagato, alti target di produzione, stress, condizioni abitative e igieniche pessime, sono la quotidianità per i lavoratori del settore, dove spesso le donne sono vittime anche di abusi fisici e verbali, che molte non identificano neanche come tali perché è la normalità, in casa come in fabbrica.
Infine c’è Tirupur, capitale della produzione di maglieria e calzetteria, che impiega donne di bassa casta, tra i 16 e i 25 anni, o uomini delle zone rurali del Tamil Nadu, i cosiddetti migranti intra-statali, che lavorano 12 ore al giorno con quattro ore di straordinario obbligatorio e salari bassissimi. Vivono negli ostelli adiacenti alle fabbriche e sono sottoposti a restrizioni della libertà di movimento in una condizione di “ schiavitù moderna”. È qui che sono state riscontrate le condizioni più gravi soprattutto negli stabilimenti che producono stoffe e filo, le filande: turni da 12 ore, doppi turni per chi vive in ostello, permessi negati, pressione mentale, abusi fisici e verbali, che conducono poi ai suicidi di ragazzine. Il sistema di copertura verso i casi di suicidio nelle fabbriche è semplice: le famiglie non fanno ricorso perché vengono pagate e resta tutto segreto.
“È interessante evidenziare come si sta muovendo l’industria: le esportazioni stanno perdendo mentre il mercato interno è in costante crescita dal 2008”, spiega al Altreconomia Emanuela Ranieri, consultant in materia di diritti umani e aziende, cui Fair Wear ha commissionato la ricerca in India, “Il mercato esterno è calato del 6 per cento anche per la Brexit, i lavoratori a contratto, più vulnerabili perché meno protetti legalmente, sono aumentati così come i lavoratori migranti. Sta inoltre avvenendo una delocalizzazione delle fabbriche per abbassare i costi di affitto e manodopera. La gara al ribasso si è sempre giocata, anche in altri settori, ma adesso diventa una gara che va oltre la regione: se prima alzavi di 30 centesimi il costo della maglietta, un colosso del settore andava a produrre in Banglasdesh, adesso se ne va in Etiopia”.
“È importante far capire al consumatore come viene prodotta la sua maglietta affinché possa costare 9,99 euro, l’obiettivo non è un boicottaggio di massa, ma è far cambiare politica alle imprese”, continua Ranieri. “Chi promuove l’equità dei diritti sta combattendo contro un modello globale di business”. Oggi la Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI), intesa come la volontà delle imprese di gestire l’impatto sociale ed etico nei Paesi di produzione, si traduce spesso in azioni di mero compiacimento di consumatori e stakeholders, con un grosso ritorno d’immagine per l’azienda. Chi vuole davvero avere un impatto, oggi, adotta la Human Rights Due Diligence, che l’ONU ha definito come “un processo di gestione del rischio costante al fine di identificare, prevenire, mitigare e spiegare come un’azienda affronta gli impatti negativi che ha sui diritti umani”, riassumibile in “know your impact”. Il cambiamento, per avvenire, deve partire dall’alto e dal basso, e passa necessariamente per la diffusione di conoscenza e informazioni.
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