Diritti / Reportage
In Siria, tra le donne yazide rapite dall’Isis. Attendono di tornare in Iraq, dalle loro famiglie
Le giovani sono state portate via e ridotte in schiavitù dallo Stato Islamico. Nel villaggio di Zairiyya sono accolte dall’associazione Bet Yazidi: le aiuta a tornare in famiglia e custodisce la memoria
Hasake, Nord-Est della Siria. In mezzo al verde della natura e alla pace del villaggio di Zairiyya, a pochi chilometri da Hasake, Ilmas aspetta il suo ritorno a casa nel Nord dell’Iraq. Dopo essere sopravvissuta alla più grande tragedia della sua breve esistenza -il genocidio della comunità yazida in Iraq e Siria- non pensava che sarebbe stata una pandemia globale a ritardarne la fine.
A novembre dello scorso anno, Ilmas, ragazza yazida di 19 anni, è stata messa davanti al cellulare in videochiamata con l’Iraq. Davanti allo zio, dall’altro lato dello schermo, che non ha smesso di piangere un istante, lei è rimasta impassibile. Immobile, con il suo velo nero, non ha battuto ciglio. “Sarei dovuta scoppiare a piangere immediatamente, dopo cinque anni senza vedere nessuno della mia famiglia”, racconta con quel sorriso malinconico e sognante che non la lascia un istante. “E invece no, ho fatto finta di non conoscerlo e di non capire il curdo!”.
Attorno a lei, i soldati delle Forze Democratiche Siriane, per la maggioranza curdi, nel campo di al-Hol in Siria, l’hanno incoraggiata invano a rivelare la verità. Ma lei ha resistito. Fino a quando lo zio, continuando a piangere, ha mostrato le foto ai soldati dicendo: “È lei, è la nostra ragazza, vi prego, riportatela in Iraq”. La storia di Ilmas è una delle migliaia di tragiche storie delle ragazze yazide rapite nell’agosto del 2014 dai militanti del sedicente Stato Islamico dell’Iraq e della Siria. Il gruppo terrorista disprezza la religione yazida, una delle più antiche in Medio Oriente, considerandola una religione di miscredenti e così giustificando la schiavitù e l’uccisione dei suoi fedeli, compiendo crimini contro l’umanità. Ilmas è stata venduta da un militante a un altro prima in Iraq e poi in Siria. Solo l’anno scorso è tornata a essere una donna libera, grazie al supporto dell’associazione Bet Yazidi. Ilmas aveva quattordici anni quando è stata separata dalla sua famiglia. Al momento del riconoscimento ha negato di fare parte della famiglia di origine che la rivoleva indietro. “Avevo paura: nel campo di al-Hol ci minacciavano che se fossimo tornati dalle nostre famiglie, ci avrebbero ucciso”, dice Ilmas, al sicuro in questo villaggio minuscolo. “Ma la verità è che non volevo lasciare più al-Hol. Mi sono innamorata”. Il campo di al-Hol ospita soprattutto famiglie irachene e siriane che si sospetta siano appartenute all’Isis. In una parte separata del campo, invece, ci sono le donne straniere, giunte in Siria per vivere sotto l’Isis. Degli anni di schiavitù, Ilmas non ricorda dei momenti felici. In Siria ha passato due anni di continui spostamenti da una cittadina all’altra man mano che i curdi avanzavano e l’Isis veniva sconfitto. Fino alla battaglia finale, quella di Baghuz. “Non potevamo più sopravvivere là. Sono scappata con i vicini”, ricorda Ilmas.
L’ultima roccaforte dell’Isis è stata espugnata nel marzo 2019 con l’aiuto della coalizione occidentale. L’associazione locale siriana, Bet Yazidi, seguiva i movimenti e le vittorie delle Forze Democratiche Siriane per un unico scopo: salvare le ragazze yazide. “Siamo nati nel 2012 e rappresentiamo la comunità yazida siriana”, si presenta Zied Ekual, il suo fondatore. “Il nostro scopo, dopo la rivoluzione siriana che ha dato più spazio e libertà di espressione anche alle minoranze, come la nostra, era meramente culturale e religioso: mantenere viva la nostra tradizione”. Presto la Siria è precipitata in una guerra civile di cui ancora non si vede la fine. Il lembo di terra dove vivono in maggioranza i siriani yazidi è il territorio in mano ai curdi che hanno creato l’Amministrazione Autonoma del Nord-Est della Siria, nel territorio conosciuto in curdo come Rojava, dove tutte le minoranze religiose ed etniche sono ben accolte.
“Dal 2013 con l’avanzata dell’Isis e poi nel 2014 con il genocidio yazida in Sinjar, nel vicino Iraq, la nostra associazione si è trasformata: il nostro ruolo è diventato quello di aiutare yazidi a scappare dalle grinfie dell’Isis e tornare dalle proprie famiglie”. Il lavoro continua e solo la recente pandemia del Covid-19 ha messo in stand-by la loro instancabile missione. “Bet significa casa e Bet Yazidi è la casa degli yazidi che stiamo provando a dare a chi ne ha persa una o deve ritornarvi”, aggiunge Zied. Nel villaggio di Zairiyya diventata la sua casa, Ilmas non può avere un telefono ma quasi ogni giorno parla con le sorelle, la nonna, lo zio in Iraq. “I miei fratelli e mio padre sono stati uccisi dall’Isis, di mia madre non si sa nulla”, spiega arrotolandosi i capelli con le mani. Accanto a lei, ci sono Randa Hussein, un’educatrice di Hasake che lavora per l’associazione. “Non sono yazida ma lo sono diventata, mi sento quasi yazida per come ho preso a cuore queste ragazze. Porto qua le famiglie, parlo con loro e ascolto soprattutto. Sono un’insegnante, ma abbiamo prima di tutto da imparare”. Se non danno loro un cellulare personale è per proteggerle. Salama, una signora anziana del villaggio, ha il compito di ravvivare il ricordo della cultura yazida alla giovane Ilmas. “Sono stati indottrinati e molti convinti a lasciare la religione yazida per l’Islam -dice Salama- ma non l’Islam della pace bensì l’Islam di Daesh, di guerra”. Daesh è il termine dispregiativo con cui chiamano tutti l’Isis, in realtà è solo il suo acronimo in arabo. “Il nostro scopo come associazione è far rivivere in un ambiente yazida per riportare alla memoria di queste giovanissime la loro infanzia, famiglia, tradizione e religione”, spiega Zied che coordina tutte le case e le operazioni di salvataggio delle ragazze.
“Non sono yazida ma lo sono diventata. Porto qui le famiglie, parlo con loro e ascolto soprattutto. Sono un’insegnante ma abbiamo da imparare” – Randa Hussein
“Dalla battaglia di Baghuz siamo riusciti a portare via 270 yazidi. Il campo di al-Hol è stata più dura, come per Ilmas. È un campo dove i civili per la maggior parte sono stati fedeli all’Isis fino all’ultimo e quindi hanno creato un clima di paura e violenza che non ha permesso alle yazide di rivelare la loro vera identità. Dietro quei veli neri del resto come riconoscerle, come poter parlare loro”. Ilmas certo non era contenta di vivere in mezzo alla polvere e la sporcizia del campo di al-Hol. Ma dopo cinque anni, aveva trovato un suo amore. “Mi sono sposata nel campo con un ragazzo iracheno di 22 anni. Avevamo la tenda l’uno di fronte all’altro, aprivamo la tenda, ci vedevamo e ci sorridevamo. Lui non era di Daesh”, ci tiene a sottolineare. O meglio non era un combattente, non lavorava per loro. “In quel momento in cui mi hanno portato via dal campo non volevo lasciarlo. Ma a ripensarci, meglio che non lo rivedrò mai più e tornerò dalla mia famiglia in Iraq. È un capitolo chiuso”.
Questa volta però ad essere chiuse sono pure le frontiere. Anzi la frontiera, l’unica via d’uscita per i siriani della Siria del Nord-Est verso il Kurdistan iracheno. E viceversa. “Zied era andato in Kurdistan per una piccola operazione all’occhio -scrive Randa via Whatsapp- e a causa della chiusura della frontiera non è più tornato. Anche le ragazze yazide sono in attesa del ritorno a casa”. Sebbene il numero dei casi Covid-19 in Siria, almeno ufficialmente, sia rimasto basso, l’allerta è massima perché il sistema sanitario, già annientato dalla guerra, non reggerebbe. Lo stesso in Iraq dove ci sono stati oltre duemila casi e un centinaio di morti. Nel frattempo però l’Isis non ha perso un attimo e ha ricominciato ad attaccare sia le Forze Democratiche Siriane sia l’esercito iracheno, uccidendo anche civili nei villaggi. Quella paura che ritorna: un gruppo sconfitto solo territorialmente ma i cui adepti si nascondono ovunque. E con le fughe dalle prigioni dove in migliaia di combattenti sono reclusi dalla battaglia finale di Baghuz. Anche tra loro ci potrebbero essere yazidi, addestrati da piccoli come combattenti e ora in carcere come militanti estremisti. “Dalle prigioni ne abbiamo tratti in salvo solo sette. Come riconoscerli?”, si chiede Zied.
Nell’attesa del ritorno a casa, Ilmas passa il tempo insieme a Randa che, quando può, porta anche la figlioletta di 13 anni. Ha una voce bellissima e canta versi di resistenza scritti da lei. Un inno al Rojava e alla lotta di liberazione dall’Isis. Ilmas si unisce al canto, con lo sfondo di una natura rasserenante. E con il ritorno a casa vicino, appena oltre la frontiera.
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