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In merito a Sanpa

Cecco Bellosi, scrittore e direttore educativo della comunità “Il Gabbiano” per persone con problemi di dipendenza, ha visto per noi il documentario su San Patrignano e Vincenzo Muccioli. “Le catene più intollerabili -scrive- sono quelle apparentemente invisibili, in uscita”. Perché “la libertà, e non la costrizione, è terapeutica”. Un contributo prezioso per ricostruire il contesto, di allora e di oggi

San Patrignano, al centro Vincenzo Muccioli

Il documentario “Sanpa” è un lavoro interessante di archeologia sociale, come lo sarebbe una ricostruzione testimoniale della fabbrica fordista. Importante, in questi casi, è sempre tenere presente il contesto.
L’eroina era apparsa in Italia all’inizio degli anni Settanta, dapprima come esperienza estrema degli eroinomani di élite nel solco della Beat Generation, per poi diffondersi trasversalmente nella società, coinvolgendo molti reduci dai movimenti di ribellione degli anni Settanta, nel passaggio triste del riflusso al privato; i figli materialmente sazi ma esistenzialmente inquieti della borghesia; i giovani randagi delle periferie sempre più lontane dalla città, da Quarto Oggiaro a via Odazio al Giambellino, alla Barona. O via Di Vittorio a Como, dove convivevano spacciatori da sopravvivenza quotidiana e ragazzi con la siringa in mano.

A monte, cominciava a stendersi l’onda lunga del narcotraffico governato dalla ‘ndrangheta e favorito dall’incredibile decisione, una vera e propria trovata, di mandare al confino al Nord i boss mafiosi sfuggiti al carcere. In particolare nei luoghi dove avevano parenti o compaesani che si erano allontanati da loro e che ora se li ritrovavano in casa. Esportando così in maniera non più eradicabile la mafia. Quanto questo disegno sia stato astutamente elaborato o sia stato invece frutto di un’improvvida improvvisazione, così come l’irruzione dell’eroina sul mercato a fronte della puntuale scomparsa della cannabis, rimangono questioni aperte. Migliaia di persone e di famiglie ne furono travolte: depredate, scarnificate, disperate. Anche perché non c’erano risposte alla dipendenza, che l’Organizzazione mondiale della sanità ha qualificato come patologia cronica a carattere recidivante. 

In quella situazione, qualunque pioniere provasse a dare una risposta, appariva come il benvenuto. E, spesso, come il salvatore, il santo, il re taumaturgo.
Un libro molto attuale dell’epoca, edito da Senza Galere, portava un titolo decisamente adatto: “Gli ostelli dello sciamano”: “In un sistema come quello di Synanon gli adepti entrano a far parte di una setta (e in America ce ne sono parecchie) con un’organizzazione sociale caratterizzata da un capo carismatico che offre una grossa protezione dal mondo esterno da cui, evidentemente, il tossicomane ha cercato scampo”. Vincenzo Muccioli è stato tra questi, ritenendo di essere lui l’antidoto alla dipendenza da eroina, trasferendola su di sé. Il patriarca. Non è stato il solo. 

Muccioli era accompagnato da un’utopia, la comunità di vita, che nelle prime immagini di “Sanpa” si vede nei volti distesi, sorridenti e sereni e nella sobria povertà dell’abitare. Lo spirito di un’avventura comune. In seguito, sarebbe diventata invece la sua avventura, accompagnata da un gruppo di piccoli oligarchi. Quei volti diventeranno sguardi compiacenti, quando l’utopia comincerà a diventare distopia.

Un passaggio piuttosto diffuso tra le utopie assolute: nella “Città del sole” per chi non aderisce convintamente al progetto è prevista la lapidazione. Su proposta del lapidato stesso.
Anche la prima fase però porta il segno negativo delle catene. Le catene non sono state una prerogativa di San Patrignano: abbondavano nei letti di contenzione delle carceri, dei manicomi e continuano a essere presenti nei repartini degli ospedali. Istituzioni totali, solo parzialmente demolite dalla coraggiosa determinazione di Franco Basaglia. A proposito, tra Basaglia e Muccioli, il popolo avrebbe scelto Muccioli, senza alcuna esitazione. E istituzioni sono quelle che hanno ridotto il corpo di Stefano Cucchi a un ammasso di ecchimosi e tumefazioni. O che, nel vecchio carcere di San Donnino a Como, hanno ucciso a calci in pancia un ragazzo che chiedeva il valium per non stare troppo male.

Affrontare le crisi di astinenza non è mai stato facile, perché il bisogno materiale di assumere la sostanza sembra incontenibile. Non dura molto: più insidiosa sul lungo termine è la dipendenza psichica, ma è terribilmente presente. Il rischio della coercizione chimica, e non solo fisica, è alto. Ma ci sono percorsi più dolci e decisamente meno invasivi, come la terapia metadonica. Il problema è che in quel periodo le comunità che si ritenevano l’acqua santa esorcizzavano il metadone come fosse il diavolo. Invece è stato molto utile, anche a evitare le fughe da astinenza, accogliere le persone in terapia metadonica, affrontando lo scalaggio delle dosi in comunità con tempi a misura di persona.

La vera questione non sono però le catene in entrata. Intendiamoci, odio le catene: sono rimasto ammanettato per alcuni giorni a un letto all’ospedale San Camillo di Roma intanto che gli agenti di custodia giocavano a pallone in corridoio.
Non è solo rabbia quella che provo al ricordo. 

Ma le catene più intollerabili a San Patrignano sono quelle apparentemente invisibili, in uscita. C’è stato però un supporto istituzionale devastante a questa prassi, ed è la sentenza della Corte di Appello. Non per l’assoluzione, ma per la motivazione: “Il tossicomane è in grado di intendere ma non di volere”. In primo luogo, non è vero: la persona con problemi di tossicodipendenza può conoscere stati confusionali e di disorientamento, anche di annebbiamento, ma non perde mai completamente, come qualunque altra persona, la capacità di volere. Va aiutata a ritrovarsi, non costretta a rimanere in comunità. Togliergli la capacità di volere annulla la sua identità, oltre alla sua dignità. Quando Vincenzo Muccioli dice: “Non ti lascerò andare via da qui” esercita un potere smisurato, posto al riparo da quella sentenza. Come nel rapporto con i politici, anche in questo caso la domanda è chi usa chi: se Muccioli le istituzioni o il contrario, salvo poi scaricarlo. I tempi di uscita dalla comunità devono essere una scelta, possibilmente condivisa, non un’imposizione.
La valutazione descrittiva dell’Oms andrebbe rovesciata. Forse è anche un problema di costruzione linguistica diversa, in inglese e in italiano: la tossicodipendenza non è una patologia cronica a carattere recidivante, ma una patologia con possibilità recidivanti, quindi a rischio cronicità. 

Ma anche questo non è del tutto vero, se guardiamo la storia delle persone. Prendiamo la piazza di Como. Li ho conosciuti tutti, i tossicomani di quel perimetro e di quel periodo. Per una parte sono morti: alcuni di overdose, molti di AIDS. Una piccola parte ha cambiato quartiere e stile di vita. Una buona parte ha conosciuto prima il carcere e poi la comunità. Ma, prima o poi, dallo stato di dipendenza ne sono usciti tutti. O quasi. I loro problemi, dopo, sono stati quelli diffusi tra i poveri: l’abitare, il reddito, la solitudine.

Pierino di quella piazza è stato l’emblema. Era già lì negli anni Settanta, con la sua dignità, sempre pulito anche quando era strafatto, cortese ed educato. Ci ha messo quindici anni e un po’ di galera prima di decidere di venire in comunità: lo ha fatto con il suo stile silenzioso. Quando ha terminato il suo percorso, deciso da lui all’inizio e alla fine, si è fermato a lavorare nel verde e ha preso casa vicino alla comunità. Per non sentirsi solo. Per oltre dieci anni è venuto tutte le domeniche a preparare il pranzo: sempre, rigorosamente, lasagne. Se ne è andato nella primavera scorsa, portato via da un ictus e non dal Covid-19. Sempre con la sua tradizionale discrezione. 

Cucciolo, che parlava con gli elfi, abita nella capiente casa di un altro ex ospite della comunità. Roberto telefona tutti i mesi per entrare in un appartamento di housing sociale, per non sentirsi solo. Non serve obbligare le persone a stare dentro le mura di un fortino: la libertà, e non la costrizione, è terapeutica.

Uno dei problemi di San Patrignano è stato la dimensione. Si possono conoscere, a volte anche piuttosto bene, centocinquanta persone, come era nell’esperienza originaria. Non si possono conoscere millecinquecento persone. Ci si deve affidare a qualcuno: i fedelissimi. Che nel rapporto di sudditanza nei confronti del capo, si possono trasformare in kapo. Si tratta di una deriva inesorabile, quando si afferma la logica del controllo assoluto. Su tutto e su tutti. La storia, grande e piccola, è piena di esempi di questo tipo, nel passaggio dai capi carismatici all’oligarchia dei fedeli. Che, poi, annidano sempre anche qualche traditore. Con le armi del ricatto in mano. Così è avvenuta la trasformazione di una comunità in un piccolo gulag: le comunità richiedono condivisione, non imposizione.

Il documentario evidenzia il rapporto di scambio tra San Patrignano e i politici, quasi tutti di destra. Vincenzo Muccioli si illudeva di usarli, è accaduto il contrario. Lui rivendicava di essere stato l’ispiratore di una delle peggiori leggi del Dopoguerra: la Jervolino-Vassalli sulle droghe del 1990. Dispiace che ci sia la firma di un grande giurista, socialista umanitario e partigiano nella Resistenza come Giuliano Vassalli. Quella legge ha trasformato le persone con problemi di tossicodipendenza in devianti autori di reato, producendo degli effetti devastanti. Unificando, tra l’altro, la cannabis all’eroina. L’impatto sul carcere è stato esplosivo. In vent’anni si è passati da trentamila a oltre sessantamila detenuti: una buona parte tossicodipendenti, un’altra buona parte migranti accusati di clandestinità, che rappresentano in maniera plastica il passaggio dallo stato sociale allo stato penale. 

Nel 1990 quasi tutte le comunità si sono schierate contro questa legge, ulteriormente appesantita dalla Fini-Giovanardi del 2006, radunandosi nel cartello “Educarsi, non punire”, dove la forma riflessiva dell’educare rifletteva la necessità del dialogo e del confronto tra ospiti e operatori. Quel cartello, ampio e variegato nelle diverse impostazioni teoriche, raccoglieva comunità a forte impronta mutualistica come San Benedetto al Porto di Genova; caratterizzate da un impianto terapeutico-clinico come l’Arca di Como; o a decisa vocazione sociale come il Gabbiano. 

A dire che non c’era solo San Patrignano.
Qualche anno dopo Vincenzo Muccioli è morto: gli è dovuto rispetto, anche per il prezzo alto che ha pagato di persona. E poi, è sempre meglio stare dalla parte dei perdenti. Non meritano rispetto invece i politici e i veri padroni di San Patrignano: troppo facile voltare pagina senza fare i conti con il passato. 

La testimonianza più sofferta, quindi più nobile, in “Sanpa” è quella di Fabio Annibaldi Cantelli. Fabio è una persona molto sensibile e acuta. Mette a nudo il rapporto di ambivalenza nei confronti di San Patrignano e, soprattutto, del suo fondatore: riconoscenza per essere stato accolto e rifiuto della distopia. Non a caso, se ne è andato pochi giorni prima della morte di Vincenzo Muccioli. Le sue parole sono una sintesi molto efficace di quell’esperienza: “Grazie a San Patrignano, nonostante San Patrignano”. Ma questo vale probabilmente per tutte le comunità.

Il documentario “Sanpa” è un esempio di archeologia sociale. Utile, forse anche per la riflessione su quel periodo. Ma oggi l’eroina, con alcuni suoi surrogati sintetici, è tornata prepotentemente in piazza. O, meglio, nei boschi, coinvolgendo nuovi tossicomani. In maniera molto diversa rispetto al passato: si tratta del grande lenitivo per le solitudini abbandonate a se stesse. Entrare a Rogoredo, conoscere gli abitanti del bosco, costruire il dialogo e l’incontro, offrire un’opportunità diversa con risposte dolci e immediate a chi chiede di uscirne è stata, è una nuova storia. Molto, troppo attuale. Nessuna catena di nessun tipo, ma la possibilità dell’abitare, della comunità, dell’andarsene e del tornare. Alla ricerca di un noi capace di superare la dimensione smisurata e la desolante disperazione dell’io.
“We, me”, diceva Mohamed Ali nella più breve e intensa poesia del mondo. 

Cecco Bellosi è da oltre vent’anni coordinatore e direttore educativo dellAssociazione Comunità Il Gabbiano per persone con problemi di dipendenza e per minori in difficoltà, attiva in Lombardia dal 1983.

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