Esteri / Attualità
L’implosione del Sud America
Proteste popolari e indigene in Cile e in Ecuador, elezioni in Argentina e in Bolivia, dove Evo Morales, rieletto per il quarto mandato, è stato costretto alle dimissioni. Il Brasile di Bolsonaro e gli interessi degli Stati Uniti. Che cosa sta accadendo in America Latina? Intervista a Giorgio Tinelli, professore dell’Università di Bologna
A fine ottobre in Cile un milione di persone sono scese in piazza per chiedere le dimissioni del presidente Sebastian Piñera e la convocazione di un’assemblea costituente. In Ecuador, indigeni e movimenti sociali hanno costretto il governo a ritirare misure economiche imposte dalle istituzioni finanziarie internazionali. In Bolivia il presidente Evo Morales s’è dimesso, il 10 novembre, dopo un report dell’Organizzazione degli Stati Americani che provava la frode elettorale durante le elezioni presidenziali di fine ottobre. Il 9 novembre, in Brasile, l’ex presidente della Repubblica Luiz Inacio Lula da Silva, del Partito dei lavoratori, è uscito dal carcere dov’era stato confinato 19 mesi fa, perché gli fosse impedito di correre nuovamente per la guidare il Paese, spianando così la strada al candidato della destra, Jair Bolsonaro, responsabile tra l’altro degli attacchi all’integrità della foresta amazzonica. Sono frammenti di un processo che riguarda tutto il Sud America. Il professor Giorgio Tinelli, docente del Master in relazioni internazionali Europa-America Latina dell’Università di Bologna-rappresentanza in Argentina, con sede a Buenos Aires, aiuta a legarli.
Le mobilitazioni in Cile e in Ecuador hanno riaperto la finestra dei media sull’America del Sud. Nel primo decennio del XXI secolo quest’area aveva rappresentato una speranza perché guidata da governi progressisti. Che cosa s’è inceppato? Perché?
GT Il tentativo di assemblare una sorta di nuovo pan-latinoamericanismo di tipo bolivariano, con una forte impronta antimperialista e anti-neoliberista, ha coinvolto i Paesi che avevano sposato in quel periodo modelli economici la cui tensione era il superamento degli aggiustamenti strutturali dell’economia. Questi allargavano da decenni la “forbice” sociale tra settori di élites economiche todopoderosas ed enormi agglomerati di popolazione che vivevano in stato di povertà, quando non con privazioni tali da essere considerati in assoluta indigenza. Il fallimento del tentativo di fare fronte unico, ovverosia l’ALBA (Alternativa Bolivariana para las Americas), si deve a molti fattori, ma tra questi quello della diversità tra le diverse esperienze politiche in gioco credo che sia uno dei più importanti. A mio avviso, perciò, sono da evitare generalizzazioni troppo semplicistiche su similitudini e comuni tendenze politiche di congiuntura: anche nel periodo d’inizio secolo il denominato “nuovo corso di sinistra” latinoamericano presentava chiare incongruenze e molte diversità tra i vari Paesi che avevano attuato scelte politico-elettorali in controtendenza rispetto al periodo precedente.
Per fare un esempio, il Venezuela chavista di populismo militare rivoluzionario, non aveva molto a che fare con l’esperienza del Brasile di Lula (presidente tra il 2003 e il 2011) e Dilma Roussef (presidente tra il 2011 e il 2016), tanto meno con il Cile guidato da Michelle Bachelet (presidente tra il 2006 e il 2010, quindi tra il 2014 e il 2018). Va detto anche che gli interessi politico-economici dei principali attori protagonisti di questa stagione divergevano in maniera decisa.
Più che domandarsi cosa si è inceppato, io mi domanderei piuttosto cosa si è innescato, ed è poca cosa. Per il resto, abbiamo assistito ad un superamento di questa stagione a causa delle mancate risposte nei confronti di una forte voglia da parte di alcuni settori sociali di migliorare sensibilmente il loro livello di vita: politiche sociali di tipo assistenzialistico che non possono essere ostentate ad libitum, classi medie che non vengono coinvolte nei progetti nazionali e che quindi migrano nei fronti di opposizione, corruzione diffusissima che permea tutti i gangli delle amministrazioni statali, solo per citare tre temi che mi sembrano centrali. Ora mi sembra che da una parte si stia assistendo a una de-ideologizzazione di massa nonché scelte politico-elettorali orientate verso cambiamenti radicali, come nel caso del Brasile di Bolsonaro, dietro a progetti che promettono benefici per tutti senza avere in nessuna maniera possibilità di esito positivo. Dall’altra unioni di governi, di partiti e di leader politici come il Grupo de Lima in funzione anti-Maduro (in Venezuale, ndr) e il Grupo de Puebla, a disegnare improbabili piattaforme politiche che hanno poca presa sui corpi elettorali regionali.
Il Cile repubblicano dal 1990 non ha mai modificato la Costituzione del dittatore Augusto Pinochet e non ha mai abbandonato le politiche liberiste. La sollevazione popolare era immaginabile?
GT Decisamente sì. Da dove viene questa applicazione dura e pura del neoliberismo cileno è cosa risaputa: i Chicago Boys di Milton Friedman sperimentarono nel Cile pinochetiano il loro modello, che poi verrà applicato in buona parte del mondo, e lo fecero in un contesto ideale, dove nessuna misura economica, anche la più draconiana, avrebbe trovato ostacoli di tipo parlamentare o opposizione callejera, nelle piazze.
Una volta superato l’incubo della dittatura militare, il modello economico non è cambiato di molto, e gli indicatori economici in perenne salita, la retorica del modello di successo ed esempio da seguire, la narrazione del miracolo economico, e così via, hanno tenuto in un secondo piano dimensioni importanti come ad esempio la tremenda disuguaglianza che caratterizzava il Paese. Questa è affiorata ora nel movimento di protesta contro il governo Piñera: l’1% della popolazione ha accumulato il 26,5% della ricchezza mentre il 50% della popolazione attiva percepisce un salario di 550 dollari al mese e accede al 2,1% della ricchezza netta del paese.
Se si considera che i prezzi della canasta basica (il paniere dei beni) cilena sono assai più alti della media regionale e che il salario minimo è fermo intorno ai 400 dollari mensili, con le pensioni medie a 286 dollari al mese, non ci si può meravigliare se, con l’aumento del biglietto della metro, si sia scoperto il vaso di Pandora: “no es por 30 pesos sino por 30 años”, non è per i 30 pesos di aumento del metro, ma per 30 anni di accumulo di problemi sociali. A questo punto, ciò che dicevo rispetto al superamento della politica nella sua più classica accezione partitica ha, in molti casi latinoamericani, la sua piena reificazione: il movimento di protesta che attualmente tiene in scacco il governo Piñera è assolutamente composito e ciò che risulta evidente è il generalizzato rifiuto di tutte le opzioni politiche tradizionali che si sono confrontate finora -dal 1989 in poi- nell’arena politica cilena. La situazione ricorda in qualche maniera il “que se vayan todos” del 2001 argentino. La soluzione sta tra l’apertura di un tavolo per arrivare a un accordo nazionale e l’inizio di un processo costituente, che riformi la costituzione vigente in maniera tale da porre le basi di una nuova stagione di condivisione di un progetto nazionale democratico. La recente comunicazione ufficiale del ministro degli interni Gonzalo Blumel, il quale ha annunciato che verrà convocato un Congresso Costituente che elaborerà una nuova Costituzione, va proprio in questa direzione. Bisognerà ora vedere i tempi e le modalità di questo processo.
In Argentina il presidente Macri è stato sconfitto. È una vera alternanza democratica, o a suo avviso la condizione “pericolante” dell’economia del Paese può far immaginare un futuro di sollevazioni e di violenza?
GT Anche nel caso argentino è bene ricordare che con il governo Macri si è avuta un’accelerazione dell’impoverimento dei settori più bassi della società argentina e anche il livello di vita dei settori medi si è decisamente abbassato.
L’urto della crisi del 2018 che ha portato alla richiesta di un prestito al Fondo Monetario Internazionale (FMI), nonché la crisi-lampo dopo la sconfitta del governo alle elezioni primarie dello scorso agosto, hanno fatto sì che si creasse una situazione economica con nuove importanti ricadute su settori sociali già colpiti dalle politiche del governo Macri.
L’indice d’inflazione al 4% mensile, con un tasso annuale del 55%, la crescita del prezzo del latte del 95% in 12 mesi, la povertà che è cresciuta a ritmi impressionanti lungo il 2018, arrivando a toccare il 35% della popolazione, proprio come nel 2001: sono solo alcuni dati, ma indicativi del successo de Los Fernández, quindi del ritorno del populismo kirchnerista, nella nuova versione di Alberto Fernández con alle sue spalle Cristina Fernández de Kirchner.
Questo non ha però niente a che vedere con ciò che visse l’Argentina prima e dopo la crisi del 2001: al tempo c’erano questioni come la Legge di convertibilità, il cosiddetto corralito, ovverosia il limite al ritiro di denaro contante dalle banche, la recessione di livelli altissimi, inflazione, disoccupazione e rischio-Paese senza precedenti. Niente di paragonabile alla situazione del periodo pre-elettorale e attuale. Certo, come sempre i cambiamenti politici risentono dei più disparati fattori socio-economici e le promesse dei candidati vengono valutate da un orizzonte di attesa comunicativo che poi riflette la credibilità di tali promesse nel loro voto. E Macri non è stato credibile per buona parte dell’elettorato.
In Ecuador la protesta ha toccato politiche di austerità dettate dal Fondo Monetario Internazionale. Siamo tornati indietro di vent’anni?
GT In Ecuador migliaia di persone hanno raccolto l’invito del movimento indigeno e sono scese in piazza a manifestare contro le misure economiche del presidente Lenin Moreno, in particolare l’eliminazione del sussidio per i prodotti petroliferi che ovviamente si sarebbe riverberato sui prezzi di buona parte dei prodotti sul mercato. L’Ecuador, Paese già molto indebitato e che aveva avuto già una crisi violentissima nel 2000 con la caduta del presidente Mahuad in una situazione di stallo con il pagamento del FMI, ha chiesto tempo fa delle linee di credito allo stesso Fondo Monetario per mettere in ordine i propri conti, in difficoltà a causa del debito enorme lasciato dalla presidenza Correa alla sua uscita, nel 2017, ma anche per il crollo del prezzo del petrolio.
Il costo del prestito di 4.200 milioni di dollari da parte del FMI è stato il cosiddetto paquetazo, ovverosia un pacchetto di misure di austerità vincolate al prestito: in breve, le solite ricette del Fondo per migliorare la performance economica del Paese che le applica, ma che in verità ha sempre comportato recessioni, alti tassi di disoccupazione e aumento della diseguaglianza. Le misure del FMI funzionano solo quando gli aggiustamenti strutturali e le misure socio-economiche conseguenti hanno un timing più ampio e progressivo. Nel caso dell’Ecuador non è stato così: il paquetazo è stato immediatamente percepito come inaccettabile da una parte maggioritaria e organizzata della società. Il ritiro del pacchetto, o buona parte delle misure che lo componevano, possibilmente costringerà il governo Moreno a una trattativa al ribasso con il Fondo Monetario, che però “spalmerà” nel tempo gli aggiustamenti economici più duri, in maniera da acquisire una sorta di sopportabilità sociale, magari anche coadiuvata da una serie di colchones -letteralmente di “materassi” sociali- atti ad alleviare l’impatto che le misure potrebbero avere su settori già deboli della società.
In Bolivia Evo Morales, leader indigeno, si è dimesso il 10 novembre, dopo aver corso per il quarto mandato e aver vinto, con probabili brogli, le presidenziali. Era stato eletto per la prima volta nel 2006, per guidare un profondo rinnovamento democratico nel Paese. Lo ha realizzato? Perché non è possibile un ricambio? Questo non indebolisce il fronte progressista?
GT Nei suoi 13 anni di governo, Evo Morales ha indubbiamente raggiunto dei risultati su molte questioni che attanagliavano storicamente il Paese: la povertà estrema dimezzata, il miglioramento netto dell’aspettativa di vita, salute ed educazione hanno avuto un notevole sviluppo e soprattutto hanno superato alcuni storici steccati socio-razziali. La nazionalizzazione del sistema di idrocarburi ha creato una base di sostegno dei piani di sviluppo sociali di cui il governo s’è fatto carico, ma soprattutto il ruolo centrale dello Stato non ha avuto i nefasti esiti di altri casi latinoamericani: il prodotto interno lordo è cresciuto con una media del 5% annuale, e anche il settore dell’impresa privata ha avuto una buona performance nei 3 mandati del governo del MAS.
Il debito democratico è lo scoglio su cui è inciampato il progetto di Morales: la nuova Costituzione da lui stesso promulgata prevede margini precisi di non-rieleggibilità, che lui stesso ha aggirato in maniera prima furbesca poi scorretta, ignorando l’esito del referendum del 2016 in cui fu sconfitta la sua proposta di rieleggibilità senza limiti.
L’uso delle istituzioni democratiche che, in quanto controllate dall’esecutivo, non svolgono il ruolo di strumenti di controllo dell’esecutivo stesso, è stato causa di proteste non solo dell’opposizione, ma anche di settori affini al governo Morales. Ma anche gli scandali di corruzione, la svendita di settori estrattivi a società straniere, nonché scelte poco ecologiste di costruzione di mega-opere infrastrutturali, sono questioni che hanno fatto perdere vari punti di popolarità al presidente.
Le accuse di frode elettorale, lo scorso 20 ottobre, hanno fondamento: il black-out in pieno conteggio del voto era più che sospetto, i risultati che lo confermavano presidente senza andare al ballottaggio non erano credibili e hanno mobilitato un composito movimento, socialmente trasversale, che ha messo sotto accusa la democraticità del processo.
La sollevazione delle polizie di vari dipartimenti ha costituito un segnale di allarme per una polarizzazione pericolosissima che, qualora avesse visto entrare in azione l’esercito, avrebbe comportato sicuramente un bagno di sangue di proporzioni inimmaginabili. Anche in questo caso, l’unica via percorribile è aprire un tavolo ampio di trattativa per un accordo nazionale.
Che ruolo hanno avuto in questo processo gli Stati Uniti di Barack Obama e oggi quelli di Donald Trump?
GT Alla Cumbre de Presidentes di Trinidad e Tobago del 2009, un appena eletto Obama pronunciò la famosa frase in cui prometteva di “superare il passato” in riferimento alle politiche statunitensi nei confronti del continente latinoamericano.
Venne considerato un punto fondamentale della cosiddetta “dottrina Obama”, ma se da una parte la ripresa delle relazioni bilaterali con Cuba aveva fatto ben sperare, dall’altra assistemmo all’acuirsi del conflitto politico-diplomatico con il Venezuela, che fu dichiarato in seguito “minaccia per la sicurezza nazionale”. In verità Obama ha sempre coltivato una teoria di non-interferenza, in America Latina, teoria che è andata a scontrarsi in varie occasioni contro la visione di vari think-tank, reti politiche e ambienti istituzionali che negli USA muovono capitali, campagne informative e interessi di enormi proporzioni.
Diverso il caso di Trump, la cui filosofia a livello di politica estera è assai diversa, se non diametralmente opposta. Donald Trump associa l’America Latina direttamente ad alcuni vitali questioni interne del suo paese, e non mi riferisco solamente alle ondate migratorie. Se di primo acchito il neo-presidente Trump mostrava un assoluto disinteresse nei confronti di ciò che esisteva a Sud del Rio Grande, in seguito ha intrapreso una politica di “castigo e minacce”, con dure sanzioni al Venezuela, minacce al Messico di erigere muri di contenimento migratorio, taglio di aiuti economici ai Paesi centroamericani, vincolando questi all’attuazione di politiche antimigratorie, giudizi negativi alla Colombia per non aver fatto nulla contro il narcotraffico, denunce ad imprese straniere che beneficiano di proprietà espropriate a Cuba dopo il 1959 a imprese statunitensi.
Nel mentre continua la “luna di miele” con il presidente brasiliano Bolsonaro, verso cui Trump ha espresso giudizi positivi e snocciolato un gran numero di visioni comuni, ma per ora senza particolare slancio economico e commerciale da parte degli Stati Uniti. Ovviamente gli Stati Uniti, come sempre è stato, cercano di trarre vantaggio per i propri interessi, e ciò attraverso una nuova formulazione del tradizionale motto divide et impera. La vera preoccupazione per l’amministrazione Trump è il possibile ritorno ad uno scenario di intrapresa di processi di unità politiche e di nuove prospettive di integrazione economica continentale che potrebbero generare problemi per gli interessi statunitensi nell’area, che continua ad essere percepita come sub-continente.
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