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Impariamo a vivere dalle piante. Intervista a Stefano Mancuso
Il nostro futuro è scritto nelle pratiche di adattamento che il mondo vegetale è capace di attuare per rispondere ai cambiamenti dell’ambiente. Se solo sapremo osservarle e copiarle. Intervista allo scienziato dell’Università di Firenze che nel 2005 ha fondato la neurobiologia vegetale
Alle pareti un grande planisfero, decine di targhette da relatore di conferenze divulgative, la prima pagina che gli ha dedicato Le Monde l’anno scorso. Sulla scrivania buste di lettere arrivate dai centri di ricerca di mezzo mondo, un blocco avorio con schizzi tracciati a penna stilografica blu, campioni di semi e frutti racchiusi in boccettine di vetro. Ai lati, immancabili, le piante.
Lo studio di Stefano Mancuso, lo scienziato dell’Università di Firenze che tra i primi ha osato parlare delle piante come organismi attivi, senzienti e intelligenti, è il concentrato della persona e del suo lavoro. Gli studi instancabili per dare corpo a teorie inizialmente indigeste per la scienza ufficiale, e l’impegno per portare fuori dall’accademia le idee nate nel Linv, il laboratorio di neurobiologia vegetale da lui fondato nel 2005.
Un lavoro che va avanti e che sta aprendo prospettive inaudite capaci di mettere in discussione le radici della nostra società: “I vegetali hanno già scritto il nostro futuro, è tutto lì, non dobbiamo fare nient’altro che copiare”.
Come ha iniziato a occuparsi di neurobiologia vegetale?
SM La neurobiologia vegetale l’abbiamo inventata qui. È nata in questo laboratorio, dalle ricerche di questo laboratorio. Durante il mio dottorato studiavo soprattutto la radice e mi accorsi che aveva dei comportamenti non molto dissimili da quelli di un animale come un verme: era in grado di percepire gli ostacoli prima ancora di arrivarci, di circumnavigarli, di prendere decisioni se andare da una parte o dall’altra. Da lì iniziai a guardare le piante da un punto di vista differente: se una singola radice è in grado di fare delle cose così complesse, mi dissi, chissà cosa può fare una pianta grande, adulta. E così cominciai a lavorare su questo.
Quindi, nonostante lei evidenzi sempre nei suoi libri le molte differenze tra mondo animale e vegetale, tutto è partito in realtà dall’osservazione di una somiglianza tra i due?
SM La prima cosa che colpisce chiunque, compresi gli scienziati, è vedere che la pianta ha dei comportamenti simili a quelli degli animali, per esempio nei movimenti e nella crescita della radice. La chiave per aprire la porta è sempre qualcosa che noi all’inizio possiamo capire, perché è simile a noi. Da lì si comincia a lavorare sulla pianta e ci si accorge che in realtà non ha niente a che fare con gli animali. Sono dei modelli diversi, e questo le rende ancora più affascinanti. Un primo passo per capire la pianta è pensarla non come se fosse un organismo unico come un animale, ma come una colonia di insetti. Una colonia si comporta come un super organismo: una formica da sola è stupidissima, ma quando stanno tutte insieme fanno cose eccezionali.
In cosa risiede questa profonda diversità?
SM Mentre gli animali si muovono, le piante stanno ferme. Per questo noi animali non abbiamo bisogno di essere incredibilmente sensibili: se ci accorgiamo anche in ritardo di qualcosa che sta accadendo, ci spostiamo. La pianta non può farlo: la sua unica possibilità di sopravvivenza è riuscire a percepire i cambiamenti con larghissimo anticipo e mutare di conseguenza la propria anatomia e fisiologia, e questa è una cosa che richiede tempo. Per questo sono molto più sensibili degli animali: i vegetali sono capaci di sentire campi elettrici, magnetici, elementi chimici, luce. Quando ancora noi non sentiamo nulla, loro già sanno che tra qualche giorno arriverà il freddo, o il fuoco. Non è corretto dire che sono in grado di fare previsioni: sono capaci di sentire minime variazioni.
Come riescono a farlo?
SM Noi animali abbiamo organi per rispondere a specifiche esigenze: vediamo con gli occhi, respiriamo con i polmoni, pensiamo e decidiamo con il cervello. Le piante non possono permettersi di avere gli organi, perché sono punti deboli: gli animali predandole le ucciderebbero. Questo non significa però che le piante non vedono, non sentono o non prendono decisioni, solo che queste funzioni sono distribuite su tutto il corpo. Ogni cellula vegetale è un organo di senso molto sofisticato e molto completo, dotato di recettori olfattivi e recettori per molecole chimiche volatili, e in grado di percepire per esempio il tocco, la pressione, le vibrazioni, le variazioni di gradiente elettrico e chimico. Non solo: al contrario degli animali, nelle piante tutte le cellule possono produrre e trasmettere segnali elettrici, e dunque comunicare tra di loro. Una specie di cervello distribuito.
Questa intelligenza diffusa rende la pianta più efficiente nell’adattarsi?
SM Questo è il punto fondamentale, al centro del mio nuovo libro che uscirà a fine marzo: le piante rappresentano un modello più adatto a produrre innovazione, meno efficiente in termini di tempo, ma più robusto e maggiormente capace di rispondere ai cambiamenti dell’ambiente. Capacità che i vegetali hanno sviluppato, come dicevo prima, in conseguenza al fatto che non si spostano come gli animali. Negli animali tutto è movimento: in noi tutto si basa sulla risposta veloce, non ci siamo evoluti per percepire i mutamenti e risolvere i problemi, ma per evitarli. Siamo costruiti nella maniera più efficiente possibile, con un unico organo di comando che decide, per fare una sola cosa: spostarci. Essendo fatti in questa maniera, abbiamo costruito così tutto quello che ci riguarda: la nostra società è gerarchica, così come lo sono le aziende. E come quando il nostro organismo va in tilt se un organo non funziona come dovrebbe, così basta un’interruzione per far crollare tutte le strutture che abbiamo creato a nostra immagine. Non solo: il mandato del mondo animale è quello di evitare i mutamenti, non di adattarsi ad essi. Non siamo capaci di cambiare e dunque di innovare. La mia tesi è che questo modello di riproduzione di noi stessi abbia raggiunto il limite: abbiamo fatto quello che si poteva fare con questo paradigma, che ora sta cominciando a mostrare i suoi molti limiti, a cui corrispondono invece i grandi pregi del modello vegetale. Pensiamo agli stravolgimenti che hanno causato le estinzioni dei dinosauri ma non quello delle piante. Il libro che sto scrivendo si chiamerà probabilmente “Plant Revolution”: le piante hanno già scritto il nostro futuro, è tutto lì, non dobbiamo fare nient’altro che copiare.
Come potrebbe venirci in soccorso il paradigma delle piante?
SM Proprio perché il modello vegetale è diverso da noi, è in grado di percepire prima i mutamenti e di adattarsi. Nelle piante, infatti, l’epigenetica ha un’importanza enorme: se una pianta cresce in un ambiente più caldo e con meno acqua, per esempio, imparerà come resistere e lascerà questa conoscenza alla generazione figlia. Se poi la generazione successiva non sarà sottoposta a questi problemi, perderà l’informazione. Pensiamo ai cambiamenti climatici: in un ambiente in continuo riscaldamento, fino a quando ci sarà un limite possibile di vita, le piante si adatteranno e produrranno dei figli sempre più adatti a quell’ambiente. Cosa che gli animali non si possono sognare di fare: noi siamo sempre lì, in mano a una mutazione favorevole e rarissima.
Penso che il nostro futuro dovrebbe essere affidato a un modello di tipo vegetale. Continuando ad utilizzare il nostro modello, che si basa sul movimento e sul consumo, e non sulla produzione, abbiamo portato al limite estremo l’idea stessa di animale. Ci stiamo mangiando il pianeta. Se vogliamo continuare come specie il nostro futuro, questo deve essere vegetale. Quando si dice che nel 2050 saremo dieci miliardi, tutti si chiedono sgomenti come farà questo pianeta a mantenerci tutti. Io penso sempre una cosa opposta: che bello che saremo 10 miliardi, perché se riusciremo ad agire come una colonia, come le piante, avremo 3 miliardi e mezzo di persone in più rispetto a oggi che pensano e sono in grado di risolvere problemi. La vera risposta al nostro futuro è, insieme a tante altre, dare la possibilità a tutte le persone che nascono di poter dare la soluzione. Ecco perché il modello vegetale è importante mentre la gerarchia è contro l’innovazione: la gerarchia riduce il numero delle soluzioni a quelle che possono essere pensate da un numero ridottissimo di persone. Nel 1992 Nature ha pubblicato un lavoro strepitoso in cui ha dimostrato che le decisioni prese in gruppo sono sempre migliori di quelle prese dal più esperto del gruppo. Questo è il sistema con il quale le piante prendono le decisioni: distribuito, non gerarchico, con un grandissimo vantaggio di essere creativo e di portare innovazione.
In questo scenario, quanto è grave per noi la perdita di biodiversità vegetale?
SM È un danno enorme di cui non abbiamo neanche i contorni. Ad oggi le stime più attendibili dicono che noi conosciamo soltanto il 10% delle specie vegetali del pianeta, ma ogni giorno se ne vanno da decine a centinaia di specie, che non abbiamo mai visto, né studiato. Spesso ci sfuggono le dimensioni della nostra dipendenza dalle piante: viene dal mondo vegetale tutto quello che mangiamo, l’ossigeno che respiriamo, la maggior parte dei tessuti con cui ci copriamo, l’energia fossile, più del 90% dei principi attivi usati in medicina. Nonostante questo, il numero di persona che studia le piante nel mondo è ridicolo. Fatto 100 gli scienziati, il numero di ricercatori che studia le piante è inferiore a uno. È come se nel team della Ferrari non ci fossero i meccanici che lavorano al motore. È uno strabismo: non capire ciò da cui dipende la vita sul pianeta. Come si fa a giustificare un’irrazionalità di questo livello?
A quali applicazioni innovative apre oggi la ricerca sulle piante?
SM Un esempio interessante riguarda lo studio dei materiali. Nel mondo vegetale ci sono decine e decine di materiali che fanno cose strane. Il velcro, per esempio, è stato messo a punto da un ingegnere svizzero studiando come si aggrappavano dei semi ai peli del suo cane. Ma le fonti di ispirazione sono molto numerose: una pigna, per esempio, è un materiale morto, ma è in grado di muoversi basandosi su un gradiente di umidità.
E poi c’è il Santo Graal, che è la fotosintesi artificiale: com’è possibile che in un mondo che ha necessità energetica, che si scanna per il petrolio, non si studi la fotosintesi per tentare di replicarla? Nel mondo ci sono solo quattro o cinque laboratori che lo stanno facendo. Mi sembra di vivere in un mondo di pazzi: non riesco a capire come sia comprensibile questa cosa.
In un mondo così incurante delle piante, quanto è stato difficile per lei sostenere l’importanza di questi concetti?
SM I concetti legati alla capacità delle piante di sentire e di essere organismi attivi sono stati estremamente difficili da far accettare agli inizi, 15 anni fa. C’era un ostracismo completo: quando se ne parlava nei convegni scientifici la gente si alzava e se ne andava, convinta che stessi dicendo una serie di idiozie talmente grosse da non essere neanche riconducibili a una discussione scientifica. Nel 2005, parlare di comportamento delle piante era vietato, non si poteva, le riviste scientifiche mandavano indietro l’articolo. Oggi sono abbastanza frequenti le cattedre di Plant behaviour, ci sono volumi sul tema e c’è una consapevolezza generale al di fuori anche dell’Accademia.
Questi ultimi 15 anni sono stati una sorta di battaglia continua, non solo nel cercare di far valere che questo laboratorio produce prove scientifiche che servono a supportare i concetti sulle piante come organismi attivi, ma anche per diffondere questi concetti. Quando nel 2005 scrissi l’articolo con cui è nata la neurobiologia vegetale, pubblicato su una importantissima rivista scientifica, 37 tra i più importanti scienziati del mondo che si occupavano di piante firmarono un manifesto apparso sulla stessa rivista in cui mi si accusava, senza usare argomenti scientifici, di aver detto idiozie terribili, insinuando che lo facessi per ottenere finanziamenti. Una cosa molto sgradevole e anche nuova per la storia della scienza. Di questi 37 quasi tutti negli anni mi hanno scritto scusandosi, dicendo di aver smagliato nel metodo e nel merito.
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