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Esteri / Reportage

Il “sistema cacao” in Costa d’Avorio soffoca i produttori biologici

Bole Ndrikro, produttore della cooperativa Ecam che nel 2021 ha vinto il premio per il miglior cacao biologico © Luca Rondi

Il cambiamento climatico e nuovi agenti patogeni minacciano le piantagioni, ma chi sceglie alternative sostenibili rinunciando ai pesticidi non riceve incentivi economici adeguati. Un problema che riguarda anche l’Unione europea

Tratto da Altreconomia 264 — Novembre 2023

“I germogli erano sempre più gonfi, le cabosse, che contengono le fave di cacao, sempre più nere, le foglie macchiate di bianco: all’inizio pensavamo che fosse colpa della siccità ma poi ha cominciato a piovere e il problema non si è risolto. In pochi mesi la malattia si è diffusa portandosi via l’intera piantagione”. Ouattra Bakary indica le sue piante di cacao che sorgono dietro le minute case in muratura sormontate da tetti in lamiera. Siamo in un piccolo villaggio a pochi chilometri dalla città di Méagui, nel Sud-Ovest della Costa d’Avorio. Dall’inizio del 2020 lo swollen shoot, un patogeno presente fin dal 1940 in Ghana, ha iniziato a infettare le piantagioni di tutto il Paese. “Non si può fare altro che andare nella foresta: là il terreno è ancora fertile e non ci sono malattie”, sussurra Daouda, mentre con il machete indica i fusti secchi delle piante.

Il distretto di Soubré in cui ci troviamo in un pomeriggio di fine settembre è uno dei più colpiti dal virus: secondo alcune stime, la riduzione media sulle 2,2 milioni di tonnellate di cacao prodotte in tutta la Costa d’Avorio nel 2021-2022 (il 45% di quella mondiale), oscilla tra il 5% e il 10%. Nel 2020 Bakary e la sua famiglia -25 persone in tutto- guadagnavano circa seimila euro all’anno (quattro milioni di franchi Cfa) oggi appena quattro. “E non solo: tre anni fa, quando le piante sono morte le autorità sono venute a verificare di persona gli effetti di questa infezione -aggiunge- e hanno inviato un rapporto agli enti competenti. Ma da quel giorno non abbiamo visto più nessuno”.

La terra è rimasta incolta per quattro anni: una doppia perdita di reddito, perché senza il via libera dell’ente regolatore non è possibile sostituire la piantagione di cacao con altre colture. “Qualche mese fa abbiamo deciso di cominciare noi a piantare mais, assumendoci la responsabilità”, spiega Doumbia Assata, la presidente della cooperativa Ecam di cui Bakary è socio. Il Consiglio caffè e cacao (Ccc), l’ente pubblico ivoriano che gestisce tutto il processo di produzione e vendita delle fave di cacao, ha promesso forme di sostegno ai produttori colpiti senza però far seguire alle promesse i fatti. “Si tenta di far finta che il problema non esista, perché fa comodo così”, spiega Andrea Mecozzi, operatore di filiera che si occupa del cacao ivoriano da oltre dieci anni.

Un problema che ha enormi ricadute sociali. Mentre Bakary racconta come un virus invisibile abbia messo fine alla sua produzione di cacao, i nipoti scorrazzano davanti a lui. Assata cerca di capire quanti di loro frequentano l’anno scolastico appena iniziato. Ancora nessuno dei cinque: i 15mila franchi Cfa (22 euro) per l’iscrizione pesano troppo su un bilancio famigliare in difficoltà, senza contare i costi per la mensa. “Sono bambini a rischio sfruttamento: li segnaleremo e monitoreremo la situazione”, spiega la presidente mentre ci allontaniamo dal villaggio.

“Un figlio che aiuta il padre nelle piantagioni dopo la giornata di studio va contestualizzato nell’ambito rurale in cui ci troviamo” – Doumbia Assata

La cooperativa che dirige ha 15 delegati che, in ogni sezione, controllano l’impiego di manodopera minorile: sulla carta dovrebbero riferire al sistema statale che si occupa di questo, ma spesso sono le Ong e i partner internazionali a investire maggiormente nella presa in carico di queste situazioni. Per la campagna 2022-2023 Ecam ha identificato 200 casi di sfruttamento, in quella precedente erano stati 400. “Su questo argomento c’è molta ipocrisia nel discorso pubblico. Un conto è non far studiare i bambini per farli lavorare -aggiunge Assata- peggio ancora la tratta di minori al solo scopo di sfruttarli lavorativamente. Ma un figlio che aiuta il padre nelle piantagioni al termine della giornata di studio va contestualizzato nell’ambito rurale in cui ci troviamo”.

L’esperienza della famiglia di Bakary per quanto “piccola” -le loro piantagioni contribuivano con appena cinque tonnellate sui 2,2 milioni totali prodotte quell’anno in Costa d’Avorio- aiuta a comprendere i nodi irrisolti dell’insostenibile filiera del cacao. Il tema della deforestazione oggi riguarda quasi esclusivamente quegli agricoltori che coltivano in aree protette a causa di infezioni delle piante o di un terreno sempre meno fertile per l’esteso utilizzo di fertilizzanti e pesticidi necessari ad assicurare volumi sempre più alti di cacao ai trasformatori in Europa. Ma il grande disboscamento che è stato compiuto a partire degli anni Sessanta, perlopiù per mano di società europee, e che si è mangiato decine di migliaia di chilometri quadrati di foresta sembra ormai concluso.

Una cabossa di cacao colpita dallo swollen shoot, agente patogeno che dal 2020 ha infettato le piantagioni di cacao del Paese © Luca Rondi

C’è poi il problema del lavoro povero e dello sfruttamento minorile, generato spesso da un sistema sbilanciato a favore dei consumatori che vogliono prodotti a bassissimo costo. Con gravi conseguenze sui piccoli produttori come Bakary. “I problemi sociali e ambientali sono legati all’insostenibilità economica e su questo, purtroppo, negli ultimi anni non c’è stato nessun cambiamento rilevante”, spiega Michele Nardella, direttore della Divisione economia e statistica dell’Organizzazione internazionale del cacao (Icco, icco.org), finanziata da 53 Stati con l’obiettivo di mettere in rete i Paesi che producono, distribuiscono e consumano questo prodotto. A inizio ottobre 2023 il Consiglio caffè e cacao, l’ente regolatore del mercato interno della Costa d’Avorio, ha fissato a mille franchi Cfa al chilogrammo (1,52 euro) il prezzo riconosciuto ai produttori per la raccolta principale della stagione che va da settembre a dicembre (la seconda, chiamata la “piccola raccolta”, si fa tra aprile e giugno).

Nonostante un aumento dell’11% rispetto al 2021-2022, l’importo resta bassissimo. Il prezzo fissato sul mercato dei futures, a Londra e New York, che subisce l’influenza delle scommesse degli investitori, diventa il parametro di riferimento delle autorità ivoriane che a loro volta stabiliscono le ricompense per ogni soggetto che interviene nella filiera interna al Paese: chi produce, chi gestisce i magazzini di stoccaggio e chi esporta. “Il prezzo fissato dal Consiglio si riferisce alle licenze di esportazione, non al prodotto cacao. Il cliente che vuole acquistarlo -continua Nardella- partecipa a quelle che sono di fatto delle contrattazioni bilaterali in cui compra a un certo importo un volume di fave semilavorate che però ‘fisicamente’ non esiste ancora. Perché sono quelle che verranno raccolte nella campagna successiva”.

Le donne di un villaggio vicino a Méagui, nel Sud-Ovest della Costa d’Avorio, cuociono le fave di cacao © Luca Rondi

Uno stratagemma che permette al governo ivoriano di avere una rendita costante di anno in anno, ma al tempo stesso scarsamente trasparente: non si sa come viene fissato il prezzo né, soprattutto, come viene utilizzato il reddito generato da tasse e rendite delle esportazioni, che restano nelle tasche del Consiglio. “Tutto quello che fa il Ccc non viene inserito nel bilancio dello Stato -aggiunge Francesca Di Mauro, ambasciatrice dell’Unione europea che incontriamo ad Abidjan- e questo significa che anche noi, a differenza di quanto avviene su altri temi con il governo ivoriano, non abbiamo molte informazioni rispetto a come viene utilizzato questo reddito”.

La concentrazione del mercato nelle mani di pochi aggrava ancor di più i problemi descritti. Nel 2021 più di 3,6 milioni di tonnellate di fave di cacao sono state vendute e processate da appena quattro tra aziende e grandi gruppi -Ofi, Cargill, Olam, Barry Callebaut- ma meno del 50% aveva un’origine tracciata. In altre parole, non si conosceva l’origine di buona parte del cacao finito nelle barrette di cioccolato distribuite in Europa. “L’Unione europea pretende standard di sostenibilità molto elevati ma poi sono gli stessi europei a distribuire i pesticidi ai produttori per aumentare la produzione”, spiega Nguessan Koffi Georges, esperto in tecniche agricole bio della cooperativa Sceb, che conta oltre 200 soci nella zona di M’Brimbo, nel centro del Paese. “Chi come noi produce biologico riceve un prezzo non adeguato rispetto al lavoro in più che richiede una coltivazione senza l’uso di pesticidi”, aggiunge.

“Chi come noi produce biologico riceve un prezzo non adeguato rispetto al lavoro in più che richiede una coltivazione senza l’uso di pesticidi” – Nguessan Koffi

Le certificazioni garantiscono dei “premi” ai produttori. Secondo quanto riferito dalle cooperative, quelle come Fair Trade o Rainforest Alliance si aggirano intorno ai 160 franchi Cfa al chilo ma solo 80-120 arriveranno netti al produttore. Mentre per il bio si arriva ai 400 franchi al chilo riconosciuti alla cooperativa. Un importo irrisorio, anche a fronte dei costi per l’ottenimento dei “bollini” rilasciati da Ecocert, ente di certificazione biologica autorizzato dall’Ue. La cooperativa Sceb ha speso quattro milioni di franchi per la campagna 2022/2023 (il doppio rispetto a quella precedente) per vedere certificato il suo cacao come bio. Altri cinque milioni di franchi serviranno a implementare un sistema di tracciamento: la nuova normativa europea, infatti, prevede che dal 2024 il produttore dovrà dimostrare che le fave sono state raccolte su un territorio che, dal dicembre 2020 in poi, non è stato deforestato. “Nel complesso questi costi incidono per il 15% sul nostro fatturato. È insostenibile”, commenta il direttore generale di Sceb, Mark Amon Tanouh.

Abiba, 27 anni, è la colonna portante della cooperativa Choco+ che ha sede a Grand Bassamm e trasforma le fave di cacao in loco © Luca Rondi

E così su pressione dell’Ue, il Consiglio caffè e cacao sta conducendo un censimento per distribuire “carte del produttore” per facilitare il tracciamento dalle piantagioni ai porti di esportazione. Etienne Konan Kouakou ci mostra la sua. “L’idea è quella di stanare i produttori e le cooperative che ‘rivendono’ il cacao su canali informali, scappando dal tracciamento. Ma ci sono grossi problemi -spiega- perché non sempre le aree di competenza dei diversi uffici del Consiglio coincidono con le aree amministrative regionali. Alcuni dei nostri soci non possono continuare a far parte della cooperativa”. A fine settembre 2023 il Ccc ha dichiarato di essere a buon punto con la distribuzione delle carte, ma l’osservazione sul campo fotografa una realtà molto diversa. Paradossalmente, da un ente così poco trasparente dipende il buon esito delle politiche europee. Eppure, in questo contesto che non premia chi davvero ha a cuore l’ambiente, c’è chi continua a investire sul biologico.

Il laboratorio della cioccolateria Choco+ di Grand Bassamm © Luca Rondi

Bole Ndrikro, soprannominato “Bioman”, perché nel 2021 ha vinto il premio per il miglior cacao biologico della cooperativa Ecam, racconta di aver deciso in autonomia di abbandonare i pesticidi. “Si diffondevano tante malattie, sulle piante come su di noi. La transizione al bio l’ho fatta per me, per la mia famiglia voglio che la terra che lascerò ai miei figli sia sana, come quella che è stata lasciata a me”, spiega.

Lo stesso coraggio di Ndrikro lo incontriamo in Abiba, 27 anni, colonna portante della cooperativa Choco+, sostenuta dalla fondazione Gruppo Abele di Torino, l’unica del Paese a trasformare il cacao in prodotto finito in loco. “Ogni settimana vado nei villaggi a insegnare alle donne le potenzialità del cacao. Le stesse che io ignoravo ma che, alla fine, mi hanno salvato la vita”, -racconta la giovane imprenditrice mentre dispone le fave sulla teglia pronta ad essere infornata nel laboratorio del Centre Abel a Grand Bassam. Storie che indicano una via da seguire. “Ci sono realtà solide che lavorano nella direzione giusta -conclude Mecozzi-. Sta al consumatore non accontentarsi e fare la stessa scelta di Bioman: per sé, i propri figli e l’ambiente”.

Questo reportage è stato realizzato per conto della Ong Mani Tese nell’ambito del progetto “Food wave”, finanziato dalla Commissione europea e coordinato dal Comune di Milano. A fine novembre verrà pubblicato un report esteso sulla missione disponibile sul sito di Mani Tese.

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