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Diritti / Reportage

Il “quotidiano” della migrazione sul confine tra Guatemala e Messico

Uno degli spazi della Casa del migrante di Città del Guatemala © Ylenia Sina

Padre Pellizzari, direttore della Casa del migrante di Città del Guatemala, racconta quello che ogni giorno vivono migliaia di persone in transito verso gli Stati Uniti. Denunciando i soprusi che subiscono nel silenzio dei media

Tratto da Altreconomia 253 — Novembre 2022

Padre Francisco Pellizzari è un missionario scalabriniano e direttore della Casa del migrante di Città del Guatemala, parte di una rete di strutture di accoglienza aperte dalla congregazione dalla metà degli anni Ottanta. “Sono un argentino di origini italiane”, sottolinea per ricordare che la migrazione fa parte anche della sua storia. Non solo per questo: padre Pellizzari ha dedicato tutta la vita alle persone in cammino verso gli Stati Uniti dove ha lavorato per cinque anni. Ne ha poi passati 25 nei centri delle città della frontiera Nord del Messico e quattro in Guatemala. Lo abbiamo intervistato all’inizio di luglio 2022 quando i quotidiani parlavano della storia di due adolescenti di 13 e 14 anni partiti qualche giorno prima da una zona rurale del Paese, per emigrare negli Stati Uniti, e ritrovati morti asfissiati nel rimorchio di un camion in Texas insieme ad altre 53 persone. “Con l’immigrazione è così -spiega-. I fatti eclatanti attirano l’attenzione mentre all’ordinario, anche se della stessa gravità, ci si abitua”.

Partiamo dall’ordinario, cos’è la Casa del migrante di Città del Guatemala?
FP È difficile da spiegare agli europei perché ospitiamo persone senza documenti, legalmente perseguibili dalla legge. Quando lo racconto in Italia mi chiedono come sia possibile che il governo non venga a prenderli. Io rispondo che da una parte le autorità rispettano un servizio umanitario come il nostro, dall’altra sanno che i cinque o seimila migranti ospitati qui ogni anno starebbero per le strade. Per questo operiamo senza problemi. Inoltre, vorrei precisare che la Casa del migrante non è un albergo dove una persona soddisfa le necessità di base e prosegue il suo cammino, ma un concetto integrale: a partire dai bisogni primari avviamo una riflessione più generale sul fenomeno migratorio. In questo momento ospitiamo i progetti di alcune organizzazioni umanitarie, dall’Unicef all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), che operano con personale retribuito. La nostra identità di solito, però, è un’altra: il sostegno ai migranti arriva dal basso, grazie alla collaborazione con le comunità parrocchiali e i volontari.

Quanti giorni si fermano i migranti in questa struttura?
FP Abbiamo vari programmi. Ce n’è uno per il rientro volontario dedicato alle persone che hanno cambiato idea e non vogliono proseguire o che hanno finito i soldi. Si fermano fino a quando non riescono a comprare il biglietto per tornare. Un secondo è rivolto ai richiedenti asilo: in molti scappano da situazioni pericolose e qualcuno presenta domanda per restare in Guatemala. Sosteniamo anche i deportati: ci sono due volontari che vanno in aeroporto e aspettano i migranti rimandati indietro dagli Stati Uniti o dal Messico offrendo loro ascolto, telefonate e un aiuto se non possono tornare ai Paesi d’origine. In questo caso possono fermarsi nella Casa fino a che non risolvono la propria situazione. I più numerosi, però, sono i migranti transitanti che si fermano solo per qualche giorno per poi proseguire il loro cammino verso il Messico e gli Stati Uniti.

Padre Francisco Pelizzari, direttore del centro. Missionario scalabriniano, ha dedicato tutta la vita alle persone in transito verso gli Stati Uniti, dove ha lavorato per cinque anni. In seguito è stato per 25 anni nei centri delle città della frontiera Nord del Messico e quattro in Guatemala © Ylenia Sina

Quali difficoltà incontrate ogni giorno?
FP La prima è riuscire a mantenere l’equilibrio tra le forze messe in campo dai volontari e i bisogni dei migranti. In questo momento non è un problema perché sono attivi i programmi delle organizzazioni internazionali, ma di solito dobbiamo fare in modo che l’offerta risponda in modo dignitoso alle necessità degli ospiti. La seconda è rimanere indipendenti dal traffico di migranti in mano ai coyote (che dietro pagamento aiutano le persone a migrare illegalmente, ndr), che il nostro fondatore san Giovanni Battista Scalabrini chiamava commercianti di carne umana. Non vogliamo far parte del traffico, ma allo stesso tempo dobbiamo tenere presente che senza una guida i migranti non potrebbero proseguire.

Lei ha lavorato anche al confine tra Messico e Stati Uniti. Quali differenze ci sono tra l’attività di un volontario in quella frontiera e quella in Guatemala?
FP L’esperienza nel Messico del Nord è allo stesso tempo incoraggiante e frustrante: da una parte perché i migranti pensano di essere ormai arrivati, dall’altra perché a volte proprio non si passa. Soprattutto la parte Est della frontiera è molto controllata dai narcotrafficanti e senza aver pagato, i migranti non possono nemmeno avvicinarsi al Rio Bravo (il fiume che segna il confine con gli Stati Uniti, ndr). È un’esperienza molto delicata perché lì si gioca tutto il viaggio. D’altro canto, però, le risorse a disposizione e i volontari sono di più. In Guatemala, invece, gli aiuti economici sono di meno perché la gente è più preoccupata per la propria sopravvivenza. Il vantaggio è rappresentato dal fatto che qui la maggior parte dei migranti prosegue con molta speranza. Non manca la sofferenza, in realtà, perché quando arrivano a questo punto hanno già subito violazioni molto gravi.

Negli ultimi anni l’attenzione al confine Sud del Messico è cresciuta: la partenza delle prime carovane alla fine del 2018, l’iniziale apertura ai migranti del presidente López Obrador, insediatosi a dicembre di quell’anno, e poi l’inversione di rotta con la repressione della Guardia nazionale. Quanto è difficile oggi attraversare la frontiera tra il Guatemala e il Messico?
FP Fino a un paio di anni fa non era difficile, così come non lo era proseguire il proprio cammino verso Nord. Con la politica ambigua di Obrador invece la repressione è diventata forte. Non avevo mai visto voli di migranti deportati dal Messico, ora ce ne sono tre o quattro a settimana. Il Messico è diventato una “frontiera verticale”: i migranti rischiano di essere detenuti lungo tutto il tragitto, devono stare attenti per tremila chilometri. La frontiera orizzontale, quella che una volta oltrepassata “sei dentro”, non esiste più. Anche le ultime carovane (formatesi a Tapachula in Messico nel giugno del 2022, ndr) si sono dissolte dopo i primi chilometri. Il dato interessante è che questa dinamica si sta allargando anche al Guatemala. L’ultima carovana in questo territorio è stata sciolta dalla polizia nazionale appena varcata la frontiera a Corinto (al confine con l’Honduras, ndr). Inoltre l’accordo di libera circolazione tra i quattro Paesi centroamericani (Honduras, El Salvador, Guatemala e Nicaragua, ndr) nella pratica non è più in vigore, anche se formalmente lo è. Fino a poco tempo fa un honduregno poteva viaggiare in Guatemala senza problemi, con il solo Documento personal de identificación (l’equivalente della carta di identità, ndr). Da qualche mese serve il passaporto. Sono politiche stabilite dagli Stati Uniti che non vogliono avere solo una frontiera ai propri confini, ma un “filtro” grande come Messico e Guatemala.

Sono 31mila le persone che in un mese lasciano il Guatemala tentando di attraversare la frontiera con il Messico. La stima è del luglio 2021 e si tratta dell’ultimo rilevamento effettuato dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim). Il principale Paese d’origine è l’Honduras (58%), seguito da Haiti (17%) ed El Salvador (12%). Il 46% delle persone che tentano l’attraversamento sono donne

Il flusso migratorio è un fenomeno che si verifica in modo costante, ma non è sempre uguale. Qual è la situazione oggi?
FP È difficile comprendere il flusso migratorio in tempo reale, così come la storia la si può capire solo guardandosi indietro. Quello che posso dire, però, è che oggi vedo migrare molti venezuelani, cubani e haitiani, che presentano condizioni economiche leggermente migliori delle persone che migravano, in modo più spontaneo, qualche mese fa dall’Honduras, dal Nicaragua e da El Salvador. Per esempio accade che i venezuelani, se non c’è posto nella Casa, ti dicano che possono andare in un piccolo hotel. L’honduregno non lo direbbe mai, piuttosto dorme sulle scale, perché non ha altre risorse. Nonostante questo, quella hatiana e venezuelana è una migrazione drammatica allo stesso modo, perché è senza ritorno. Mentre prima passavano soprattutto gli uomini con l’obiettivo di andare a lavorare e spedire il denaro a casa, oggi sono le famiglie a mettersi in viaggio. Una volta ne è arrivata una al completo, compresa la nonna. Ci sono tantissimi bambini. Questa Casa, di notte, sembra un asilo e non era mai stato così.

Come avete vissuto alla Casa del migrante la notizia della morte di 50 migranti asfissiati in un camion ritrovato in Texas?
FP Per noi sono sempre fatti tristi. Però mi dà fastidio l’attenzione mediatica che dura tre giorni e poi, di colpo, scompare mentre la realtà continua. Queste tragedie sono solo la punta dell’iceberg delle atrocità che i migranti vivono ogni giorno in modo diluito. È come pensare che reprimendo le carovane spariscano i migranti. Qui ogni giorno ne arrivano 40 o 50. Sono piccole carovane, eppure non si meritano la stessa attenzione. I migranti invece non parlano di tragedie come quelle del Texas, perché loro hanno già vissuto situazioni di quel tipo. Soprattutto chi viene dalla Colombia o dal Venezuela e ha attraversato il darién a Panama (una zona di foresta pluviale, ndr) è testimone della presenza di corpi putrefatti lungo il cammino. La notizia di cinquanta morti asfissiati è il segnale che bisogna stare attenti ma non rappresenta una novità.

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