Terra e cibo / Approfondimento
Il mondo è sull’orlo di una crisi alimentare ma la Fao punta su ricette fallimentari
Crescono le persone denutrite e la pandemia ha aggravato la situazione. A essere iniquo è il “modello” che punta sulla specializzazione dei Paesi a basso reddito, costringendoli alla dipendenza. Va superato, spiega Stefano Prato (Civil society financing for development group), mettendo al centro la sovranità alimentare
Siamo sull’orlo di una nuova crisi alimentare mondiale ma le principali agenzie internazionali, tra cui la Fao, propongono come soluzione all’emergenza il mantenimento dello stesso modello che ha contribuito a causare la situazione in cui ci troviamo. Lo spiega Stefano Prato, direttore della “Society for international development” e coordinatore del “Civil society financing for development group” (CS FfD Group), una rete nata nel 2002 che riunisce oltre 800 associazioni da tutto il mondo tra cui organizzazioni non governative e movimenti dal basso: “Ci troviamo in questa condizione da prima che scoppiasse la pandemia. Diverse statistiche, comprese quelle della Banca Mondiale (che tendono a offrire un quadro più roseo rispetto alla realtà) ci dicono chiaramente che il numero di persone che soffre la fame è in crescita, da anni. Il Covid-19 ha provocato un’accelerazione di un fenomeno già esistente”, spiega.
I dati forniti dalla Fao, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’agricoltura e l’alimentazione, aiutano a mettere a fuoco la gravità della situazione: nel 2019 le persone denutrite erano quasi 690 milioni (circa l’8,9% della popolazione globale), mentre due miliardi di persone (il 25,9% della popolazione globale) hanno sperimentato la fame o non hanno avuto accesso a cibo adeguato per qualità e quantità. L’edizione 2021 del report “State of food security and nutrition in the world” mette in evidenza anche come il numero di persone denutrite abbia registrato un calo nel periodo compreso tra il 2005 e il 2015 (passando da 810 milioni a 615 milioni), ma a partire da quel momento il trend abbia ripreso a salire. L’emergenza sanitaria e soprattutto quella economica causata dal Covid-19 hanno fatto crescere ulteriormente i numeri: per il 2020 la Fao ha stimato infatti tra i 720 e gli 811 milioni il numero di persone denutrite nel mondo. Mentre il numero di chi non ha accesso a cibo adeguato è salito a 2,37 miliardi (in crescita di oltre 300 milioni di unità in un solo anno).
I segnali per il futuro non sono incoraggianti: in tutto il mondo si registra un aumento dei prezzi dei generi alimentari (compresi quelli basilari come grano e riso) e il rischio di una crisi alimentare è particolarmente grave in Paesi come l’Afghanistan dove, secondo le stime Onu, 23 milioni di persone sono a rischio. O il Madagascar che sta attraversando la più grave siccità degli ultimi 40 anni. Per il capo economista della Fao Maximo Torero Cullen, intervistato dal Washington Post il 15 dicembre 2021, la situazione che stiamo attraversando “è peggiore rispetto a quella del 2007-2008 in termini di insicurezza alimentare causata da conflitti. Ma a livello globale, la situazione complessiva è migliore. Nel senso che abbiamo ancora disponibilità di cibo, mentre il problema è l’accesso”.
Una lettura che Stefano Prato non condivide: “Per la Fao il problema dell’accesso al cibo è associato al rallentamento delle global value chain e del commercio internazionale -spiega ad Altreconomia-. Nell’analisi dell’agenzia delle Nazioni Unite, quindi, il problema dell’accesso al cibo è legato a un rallentamento del normale funzionamento del sistema del commercio globale. Ma a mio avviso la diagnosi è un’altra: il sistema economico dominante ha spinto molti Paesi, soprattutto quelli in via di sviluppo, verso una massiccia specializzazione e un modello economico basato sulla produzione di pochi prodotti destinati prevalentemente all’esportazione per poi dover importare tutto il resto. Un sistema che crea dipendenza”. È il caso, ad esempio, di Paesi dell’Africa sub-sahariana specializzati nella produzione di caffè o cacao, o ancora Stati dell’America Latina che basano la propria economia sulle coltivazioni di soia.
Questa situazione ha fatto sì che le economie di molti Paesi del Sud del mondo abbiano iniziato a registrare i primi rallentamenti ancora prima dello scoppio della pandemia Covid-19: in alcune nazioni asiatiche, ad esempio, l’economia si è fermata prima dell’inizio della crisi sanitaria a causa del rallentamento della domanda da parte dei Paesi trainanti (Stati Uniti ed Europa in primis).
“La crisi causata dal Covid-19 avrebbe potuto essere l’occasione per riconoscere che abbiamo bisogno di sistemi alimentari più forti, più resilienti e più capaci di combattere anche condizioni climatiche avverse. E soprattutto che creano crescita economica interna e minor dipendenza dall’importazione di prodotti alimentari. Abbiamo bisogno di garantire la sovranità alimentare -riflette Prato-. Il fatto che, anche nei mesi passati, la Fao abbia cavalcato nuovamente questa idea di una specializzazione estrema nella produzione di generi alimentari è preoccupante. Un Paese che ha un vantaggio competitivo perché ha delle condizioni territoriali, ambientali o climatiche che gli consentono di valorizzare al massimo una particolare produzione diventa poi dipendente da tutto il resto”. Non bisogna però confondere la sovranità alimentare -ovvero la capacità di scelta di quale sistema alimentare adottare in un determinato contesto- con l’autosufficienza alimentare. “Si tratta di aspetti distinti e non tutti i Paesi hanno una piena corrispondenza tra i due -aggiunge Prato-. Ci sono Paesi che per condizioni climatiche, per natura e dimensione del loro territorio o ancora per il rapporto tra popolazione e territorio possono non essere in grado di avere una piena autosufficienza alimentare. Ma questo non vuol dire che non possano avere sovranità sull’approccio produttivo e sul tipo di sistema alimentare che vogliono promuovere”.
C’è poi un ulteriore elemento che viene citato dai media internazionali e dall’economista della Fao nell’intervista sul Washington Post come una delle cause della possibile crisi alimentare globale: la crescita dei prezzi dei fertilizzanti chimici. Per Stefano Prato si tratta di uno specchietto per le allodole: “Il problema dei fertilizzanti chimici, e più in generale degli input chimici al processo produttivo, è tipico dei sistemi agricoli industriali: se l’obiettivo è massimizzare la produzione di un singolo prodotto per ettaro gli input chimici sono fondamentali. Ma sappiamo anche che comportano mille altri problemi legati alla contaminazione ambientale e agli impatti sulla salute delle comunità di produttori -argomenta-. Sempre più la Fao spinge verso un sistema industriale per risolvere il problema della fame nel mondo. Noi, invece, riteniamo che quella sia la matrice del problema. Dal punto di vista dei movimenti dei contadini e delle organizzazioni della società civile si tratta di un problema mal posto: noi possiamo e vogliamo produrre senza fertilizzanti chimici perché la sfida che abbiamo di fronte è quella di prenderci cura degli ecosistemi si cui si basa la nostra vita ed assicurare la salute dei nostri contadini e dei nostri cittadini”.
Il problema, conclude il coordinatore del CS FfD Group, non è quello di produrre più cibo: oggi il 17% della produzione alimentare viene sprecato, pari a 931 milioni di tonnellate secondo i dati del Food waste index report del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep). La sfida sta invece “nell’avere sistemi territoriali che sono in grado di corrispondere la produzione di cibo adatta a ciascun territorio e alla sua popolazione. E questo non si risolve con una maggiore produzione globale ottenuta grazie ai fertilizzanti e le global value chains, ma mettendo al centro i sistemi alimentari territoriale e la sovranità alimentare”.
© riproduzione riservata