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Ambiente / Approfondimento

Agricoltura e transizione: l’impatto dei fertilizzanti di sintesi sul Pianeta

Lo stabilimento della multinazionale del settore dei fertilizzanti Yara Belle Plaine in Canada - © Wikimedia

L’industria dei fertilizzanti di sintesi vale 70 miliardi di dollari ed è responsabile dell’emissione di 1,25 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno, più dell’aviazione civile. L’Ong Grain spiega perché è tempo di abbandonare la “rivoluzione verde” per centrare gli obiettivi di decarbonizzazione. Multinazionali permettendo

L’industria dei fertilizzanti di sintesi vale 70 miliardi di dollari ed è responsabile dell’emissione di 1,25 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno, pari al 25% del contributo emissivo del settore agricolo. Un livello superiore a quello dell’aviazione civile (900 milioni di tonnellate di CO2 annue). Lo evidenzia la ricerca “Greenhouse gas emissions from global production and use of nitrogen synthetic fertilisers in agriculture pubblicata nell’ottobre 2021 dai ricercatori Stefano Menegat, Alicia Ledo e Reyes Tirado, in collaborazione con Greenpeace, Iatp e Grain (in pre-print, al 19 novembre è ancora in fase di revisione e non è stata rilasciata). 

Produzione e utilizzo dei fertilizzanti sintetici a base di azoto non provocano solo danni all’ambiente ma rendono anche il sistema alimentare globale estremamente vulnerabile. Prova ne è ad esempio la dipendenza dal gas fossile, la cui volatilità dei prezzi rischia di ripercuotersi sui coltivatori. Un improvviso aumento del costo del combustibile, come accaduto peraltro nell’ottobre di quest’anno, renderebbe molto più difficile e dispendiosa la produzione di fertilizzanti con il conseguente rischio di danneggiare una filiera agricola ormai fortemente dipendente dai fertilizzanti chimici. “Per realizzare una vera transizione ecologica -segnala non a caso Grain, organizzazione non profit internazionale a sostegno a sostegno dei piccoli agricoltori- è necessaria una drastica riduzione del loro impiego, evitando soluzioni di comodo presentate dalle multinazionali del settore chimico”.

Alcuni casi di “impatto” aiutano a farsi un’idea: quando sono disperse nel suolo, queste sostanze rilasciano protossido di idrogeno (N2O), un gas inquinante in grado di produrre un effetto serra pari a 265 volte la stessa quantità di CO2. La quota più rilevante delle emissioni del settore è dovuta alla loro produzione e trasporto, responsabili di circa il 40% dell’impronta ecologica dei fertilizzanti sintetici.

Secondo le stime del Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc), il consumo mondiale di fertilizzanti è aumentato di otto volte dal 1960. La tendenza persiste tuttora: la Fao stima una crescita del loro consumo pari al 50% entro il 2050. Il loro impiego è concentrato prevalentemente in Cina, India, Europa e Nord America mentre sta aumentando in Africa. Il loro consumo pro-capite, invece, è prevalentemente concentrato in aree esportatrici di prodotti agricoli come Nord America, Sud America, o Paesi come Australia, Nuova Zelanda, Francia, Danimarca, Irlanda e Ucraina.

L’uso massiccio di fertilizzanti nel campo agricolo è iniziato nel 1960 con la cosiddetta “rivoluzione verde”, un processo che ha portato a un considerevole aumento della produzione agricola mondiale sia in termini di prodotto sia per quanto riguarda la resa del singolo terreno. La “rivoluzione verde” ha favorito la diffusione delle colture di base (principalmente mais, riso e grano) e un ampio utilizzo di fertilizzanti e pesticidi per incrementarne il raccolto. Tale strategia ha comportato, ricorda Grain, da un lato un apparente miglioramento della produttività delle coltivazioni ma dall’altro ha colpito duramente la biodiversità in quanto poche varietà hanno rimpiazzato le sementi meno redditizie. 

Attualmente solo il 20%-30% dei fertilizzanti applicati è assorbito dalle piante, il resto è riversato nell’ambiente arrivando a inquinare le acque e il suolo. L’eccessivo utilizzo di sostanze di sintesi in agricoltura, unito a una ridotta biodiversità delle coltivazioni, sta causando per Grain problemi ambientali e sociali lasciando il prezzo del cibo esposto alle fluttuazioni del costo di energia, gas o sostanze chimiche e permettendo a poche multinazionali come Bayer e Yara Belle Plaine di monopolizzare il mercato. Oltretutto l’efficacia dei fertilizzanti è notevolmente diminuita dal 1960: vuol dire che per produrre la stessa quantità di raccolto è ora necessario impiegare una dose molto maggiore di azoto. Questo sta creando un circolo vizioso dove gli agricoltori sono costretti ad acquistare sempre più sostanze di sintesi per mantenere alta la produttività delle loro coltivazioni.

Un ulteriore problema riguarda la crescente separazione tra agricoltura e allevamenti che sta portando i campi a non venire più concimati con fertilizzanti “naturali”. Per raggiungere la decarbonizzazione, sottolineano i ricercatori di Grain, è necessario agire anche sul settore agroalimentare, riducendo la sua impronta ecologica e la sua dipendenza dal settore chimico. Attualmente questa industria ha un grave impatto non solo in termini di emissioni, ma anche per quanto riguarda la deforestazione e la perdita di biodiversità causati dall’allevamento intensivo. Secondo l’Ong, infatti, non è possibile ridurre le emissioni dell’industria agroalimentare senza ripensare all’attuale modello di allevamento. “Gli ostacoli verso una graduale uscita dai fertilizzanti sintetici a base di azoto non sono di natura tecnologica o economica, ma provengono delle multinazionali, intenzionate a tutelare i loro profitti”. Per questo è necessario prestare attenzione alle “false soluzioni” presentate dalle multinazionali e relative a una “agricoltura di precisione” e a un uso più accurato dei prodotti: tutte strategie volte a disinnescare sostanziali cambiamenti. Per superare la dipendenza dai fertilizzanti sintetici è invece necessario costruire un’agricoltura in grado di preservare la salute del suolo e di valorizzare varietà e coltivazioni resistenti, capaci di crescere senza un uso eccessivo di prodotti sintetici.

“Il benessere del Pianeta e dei popoli che lo abitano viene prima del profitto di poche multinazionali -conclude Grain-. Se vogliamo ridurre drasticamente il contributo dell’agricoltura ai cambiamenti climatici è necessario programmare un’uscita graduale dai fertilizzanti di sintesi il prima possibile”. 

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