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Economia / Opinioni

Il modello Airbnb nasconde una speculazione finanziaria che favorisce la rendita immobiliare

Dominio pubblico

Il lavoro povero nel turismo ne è una diretta conseguenza. Con danni per tutto il sistema Paese. La rubrica di Alessandro Volpi

Tratto da Altreconomia 263 — Ottobre 2023

I numeri lo dicono con chiarezza, ormai. Il settore turistico sta diventando uno dei terreni di coltura del lavoro povero. Le assunzioni avvengono quasi interamente attraverso contratti di durata brevissima, ben al di sotto della logica della stagionalità, mentre il lavoro a tempo indeterminato, nelle nuove assunzioni, fatica ad arrivare al 10%. In alcune realtà, come quella fiorentina, si ferma al 5%, ma in quasi tutte le città d’arte le percentuali non sono molto diverse.

Le ragioni di un simile fenomeno sono numerose. Una, tuttavia, si sta rivelando particolarmente evidente. Il turismo alberghiero ed extra alberghiero (così come la ristorazione) soffrono la concorrenza di Airbnb che sta trasformando intere aree residenziali in attività di pernottamento senza in pratica alcun vincolo, senza reale indotto, senza una vera occupazione e con effetti pesantissimi sulla qualità del lavoro e, più in generale, sul tessuto urbano.

Gli appartenenti mantengono la destinazione d’uso residenziale, non hanno bisogno di rispettare quasi nessuna regola igienica, non hanno bisogno di personale e pagano il 21% di aliquota. Si tratta di una rendita formidabile, quasi sempre goduta da proprietari assai benestanti, che sottrae enormi spazi a studenti e lavoratori in trasferta, non produce gettito e distrugge la filiera turistica.

La ricaduta reale di questo fenomeno è limitatissima (perché sono sempre di più gli immobili comprati da fondi finanziari per questo scopo) ed estremamente distorsiva del funzionamento del settore turistico, dove spariscono intere filiere alberghiere e dove la precarietà e l’abbattimento del costo del lavoro sono la via maestra per cercare di fronteggiare l’avanzata aggressiva di Airbnb.

L’aliquota versata dal proprietario di un appartamento che lo mette in affitto sulla piattaforma Airbnb è del 21%

In quest’ottica può essere utile una considerazione più generale, valida per numerose regioni del Centro-Nord. I comparti manifatturieri stanno progressivamente riducendo il numero degli addetti, che sono nell’insieme quelli con retribuzioni contrattuali più alte, e stanno vivendo una frammentazione delle unità produttive, con la conseguente produzione di un minor valore aggiunto. Se questa perdita di peso del manifatturiero trova una debole risposta nella crescita di un settore turistico dominato da unità abitative residenziali che svolgono funzioni ricettive, è evidente che gli effetti sul Pil nazionale saranno tutt’altro che significativi. In quest’ottica il rischio reale è che si ampli il perimetro di quell’economia informale e grigia che non determina gettito fiscale e non genera nuovo reddito, ma si limita a fornire una rendita. Che in alcuni casi può servire a integrare i redditi bassi dei piccoli proprietari, ma più frequentemente finisce nel determinare i profitti di grandi proprietari di complessi immobiliari che snaturano i prezzi degli affitti, facendoli lievitare.

A livello globale, il fenomeno ha un risvolto ancora più pesante perché i principali azionisti di Airbnb Inc. sono i grandi fondi finanziari, a cominciare da Vanguard. Che, guarda caso, stanno comprando, a prezzi stracciati i grandi alberghi in giro per il mondo. Non è certo un caso che i “nuovi” azionisti di Hilton e di Marriot, le principali catene mondiali, siano gli stessi grandi fondi presenti in Airbnb. Se a ciò aggiungiamo che esiste un monopolio di fatto delle piattaforme host, si capisce bene l’impatto sociale ed economico delle trasformazioni in corso nel mondo del turismo.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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