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Il Messico potrà citare in giudizio i produttori d’armi statunitensi

Con una decisione storica la Corte di Boston ha rilevato motivi sufficienti per portare in tribunale nove aziende che avrebbero favorito il traffico illegale senza applicare restrizioni a distributori e rivenditori che riforniscono i cartelli. Un business mortale che ha bucato l’ipocrisia del confine più sorvegliato del Pianeta. C’è anche Beretta

Il Messico ha ottenuto una vittoria legale senza precedenti: il 22 gennaio 2024 la Corte d’Appello di Boston, negli Stati Uniti, gli ha dato infatti ragione affermando che ci sono motivi sufficienti per portare a giudizio nove colossi dell’industria degli armamenti (tra cui Colt, Smith&Wesson, Barrett, Beretta e Glock) e un distributore (Interstate Arms) dopo che un tribunale del Massachusetts aveva respinto la causa nel settembre 2022.

La vicenda ha avuto inizio ad aprile 2021, quando l’esecutivo guidato da Andrés Manuel López Obrador ha presentato una denuncia di 139 pagine contro alcuni tra i più grandi produttori di armi leggere a livello mondiale, accusandoli di aver tratto profitto per anni vendendo illegalmente i loro prodotti ai cartelli messicani. Un business che avrebbe causato al Paese un danno stimato in dieci miliardi di dollari.

“Per decenni il governo (del Messico, ndr) e i suoi cittadini sono stati vittima di un flusso mortale di armi di tipo militare che dagli Stati Uniti attraversano il confine e finiscono in mani criminali -si legge nella denuncia-. Non è un fenomeno naturale o una conseguenza inevitabile del commercio di armi o delle leggi statunitensi sulle armi. È il risultato prevedibile delle azioni e delle pratiche commerciali deliberate degli imputati”.

La Corte d’Appello ha accolto il ricorso affermando che il Paese aveva presentato un caso sufficientemente solido e che “i convenuti (le aziende produttrici di armi, ndr) hanno aiutato e favorito il traffico, consapevolmente illegale, delle loro armi in Messico”. “La sentenza rappresenta un significativo passo avanti nel ritenere queste aziende responsabili del loro contributo alla violenza in Messico -spiega ad Altreconomia l’avvocato Jonathan Lowy che affianca il governo del Messico ed è presidente dell’organizzazione non profit Global action on gun violence-. Non solo la Corte ha riconosciuto il diritto di un altro Paese di citare in giudizio le aziende produttrici di armi che hanno sede negli Stati Uniti, ma ha anche superato l’ingiusto scudo legale dietro il quale le aziende produttrici di armi si nascondevano dal 2005″.

Lowy fa riferimento al Protection of lawful commerce in arms act (Plcaa), una norma approvata nel 2005 a tutela dei produttori di armi da fuoco che li protegge dalla possibilità di essere ritenuti responsabili per i reati commessi con fucili e pistole prodotti nei loro stabilimenti. Proprio sulla base di questa legge, il ricorso presentato dal governo del Messico era stato respinto nel settembre di due anni fa.

“Con questa decisione, la Corte d’Appello ha affermato che il Messico ha il diritto di andare davanti a un giudice e presentare le prove a sostegno della propria denuncia -spiega ancora il legale-. Potremo sottoporle ai dirigenti delle aziende coinvolte che dovranno rispondere sotto giuramento. Non vediamo l’ora che questa fase abbia inizio”.

L’attenzione torna quindi a concentrarsi sui contenuti della denuncia presentata nel 2021 secondo cui ogni anno circa 500mila armi attraversano illegalmente da Nord verso Sud il confine tra i due Paesi: di queste il 68% (in numeri assoluti, più di 340mila) sono state prodotte dalle aziende citate a giudizio. “Molti sono fucili d’assalto, tipo AR-15 o AK-47 -spiega Lowy-. Ci sono alcuni fucili da cecchino calibro 50, che possono persino abbattere elicotteri e colpire un bersaglio a un miglio (1,6 chilometri, ndr) di distanza”.

Le leggi nazionali impongono forti vincoli all’acquisto di pistole e fucili ed è “virtualmente impossibile”, sottolinea il legale, per un cittadino messicano acquistare armi -compresi i fucili semi-automatici non specificatamente di tipo militare- nel proprio Paese. Molto più semplice rifornirsi in una delle 20mila armerie disseminate appena al di là della frontiera dove, dal 2004, persino armi d’assalto possono essere vendute liberamente a privati cittadini.

Ma come avviene il passaggio di una quantità così imponente di armi da fuoco lungo uno dei confini più sorvegliati del Pianeta? Lowy usa un termine efficace: ant-trafficker, trafficante formica. “Le armi vengono trasportate da diversi individui, ciascuno dei quali ne porta poche alla volta, talvolta smontate e nascoste nelle auto. Essendo un confine molto trafficato è difficile controllarle tutte con attenzione”. Uno degli episodi citati nella denuncia è significativo per illustrare questo meccanismo. Tra marzo 2016 e dicembre 2018 un singolo rivenditore ha venduto a un trafficante 37mila munizioni, oltre 2.649 caricatori per fucili ad alta capacità, 120 piastre di protezione e tre pistole Colt: sono stati necessari 87 viaggi per consegnare il tutto agli uomini del cartello di Sinaloa.

“Da moltissimi anni esistono rapporti del governo statunitense, studi accademici e inchieste giornalistiche che spiegano esattamente in che modo viene rifornito il mercato criminale -spiega Lowy-. Già vent’anni fa era noto il fatto che il 5% dei rivenditori mette in commercio il 90% delle armi che vengono utilizzate per commettere crimini. Anche i produttori ne sono consapevoli, eppure hanno continuato a rifornire questi rivenditori per pure ragioni di profitto”.

L’accusa alle aziende è chiara e netta: nonostante questa imponente mole di informazioni, note anche al grande pubblico attraverso il lavoro dei media, non avrebbero istituito alcun protocollo di sicurezza nei loro sistemi di distribuzione per individuare e scoraggiare il traffico illegale di armi verso il Messico. “La politica di ciascun indagato -si legge nel ricorso- è quella di vendere le proprie armi a tutti i licenziatari federali, le uniche restrizioni che hanno imposto ai loro sistemi di distribuzione sono i requisiti finanziari. Sono consapevoli che in assenza di interventi specifici stanno fornendo, sostenendo e aiutando le transazioni illegali con cui alcuni rivenditori di armi riforniscono i trafficanti di armi e altri criminali in Messico”.

“Alcune aziende, come Colt, hanno persino prodotto armi da fuoco destinate specificatamente al mercato messicano”, aggiunge Lowy. Come nel caso della pistola che nel 2017 ha assassinato la giornalista investigativa messicana Miroslava Breach Velducea: un’edizione speciale di una Colt sulla cui canna sono stati incisi, da un lato l’immagine del leader rivoluzionario Emiliano Zapata e sull’altro una frase a lui attribuita: “È meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”. Nel catalogo dell’azienda ci sono anche altre pistole in edizione limitata con incisioni e motti in spagnolo, simboli aztechi e dai nomi evocativi come “El Jefe” (il capo) o “El grito” (il grido) o la “Emiliano Zapata 1911”. Armi che strizzano smaccatamente l’occhio al mercato messicano.

Se guardiamo al numero di armi da fuoco di provenienza criminale che sono state requisite dalle autorità messicane tra gennaio e maggio 2020, una su due è stata prodotta dalle aziende citate a giudizio: il 10,8% da Colt, il 9,9% da Smith&Wesson, il 6,7% da Glock, il 6,2% rispettivamente da Ruger e Century Arms, il 5,8% da Beretta, il 2,3% da Barrett.

Lowy è convinto che se l’azione legale avrà successo farà sentire i suoi effetti positivi su entrambi i lati del confine: “L’obiettivo finale è cambiare il modo in cui le aziende produttrici di armi fanno affari -conclude-. Se la causa promossa dal Messico riuscirà a fare in modo che le aziende rispettino la legge e si impegnino ad attuare pratiche più responsabili e sicure si fermerà non solo il flusso di vendita verso i cartelli, ma anche quello diretto verso i gruppi criminali negli Stati Uniti. Che, probabilmente, saranno il maggiore beneficiario del cambiamento di queste pratiche commerciali”.

Tra le aziende citate nella denuncia presentata dal Messico figurano anche Beretta Usa e la sua controllante, Beretta Holding. La società con sede a Gardone Valtrompia (Brescia) è anche al centro di diversi rapporti pubblicati realtà della società civile europea e messicana che denunciano da anni l’aggravarsi della violenza nel Paese centro-americano e il ruolo svolto dall’industria armiera. Già nel 2020 il reportDeadly Trade. How European and Israeli arms exports are accelerating violence in Mexico” denunciava come un terzo delle 238mila armi vendute tra il 2006 e il 2018 alla polizia messicana fossero state prodotte da Beretta ed esportate dall’Italia: “Armi che sono state utilizzate dalla polizia di diversi Stati messicani in molteplici gravi violazioni dei diritti umani, compreso il rapimento di 43 studenti della scuola rurale di Ayotzinapa a cui prese parte la polizia municipale di Iguala, armata con fucili d’assalto Beretta”, denunciava l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal). Inoltre, una quota significativa di queste pistole e fucili d’assalto è finita nelle mani della criminalità organizzata: delle oltre 61mila armi sequestrate tra il 2010 e il 2020, ben 2.744 erano di fabbricazione italiana, soprattutto pistole Beretta.

“Se le accuse mosse dallo Stato del Messico saranno provate davanti a un tribunale verranno messe in luce le responsabilità delle aziende produttrici di armi leggere. Che però non possono limitarsi al rispetto delle normative -commenta Giorgio Beretta, analista di Opal-. Molte di queste società hanno codici etici e di condotta. Anche se non c’è una responsabilità diretta dal punto di vista legale, dovrebbero esercitare un principio di cautela ulteriore per evitare che le loro armi finiscano in mani sbagliate”.

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