Altre Economie / Varie
Il marketing del latte in polvere
Le campagne pubblicitarie delle imprese che producono sostituti del latte materno aggirerebbero i divieti, confondendo le madri. Una ricerca scientifica, condotta in Italia e pubblicata sulla rivista Archives of Disease in Childhood, spiega come e perché. Altreconomia ha intervistato Adriano Cattaneo, epidemiologo e coordinatore del gruppo di lavoro che l’ha realizzata
Ci sono diversi tipi di latte in polvere, riconoscibili da un numero riportato sulla confezione. Esistono “latti 1”, per neonati fino a 6 mesi, “latti 2”, cosiddetti latti di proseguimento, per bambini tra 6 e 12 mesi, e “latti 3”, chiamati impropriamente latti di crescita, da utilizzare dopo che il bambino ha superato un anno. Nel nostro Paese, è proibita la pubblicità dei latti 1, mentre è permessa quella dei latti 2 e 3. Lo prevede il regolamento numero 82 del 2008 del ministero della Salute, che recepisce una direttiva della Commissione europea (la 141 del 2006), che a sua volta riprende, anche se solo in piccola parte, il “Codice internazionale sulla commercializzazione dei sostituti del latte materno” promosso -nel 1981- dall’Organizzazione mondiale della Sanità.
Tanto il regolamento italiano quanto quello europeo sarebbero inadeguati quando si tratta di difendere le donne e le mamme da una pubblicità che mette in pericolo l’allattamento, almeno secondo i risultati di una ricerca realizzata da un gruppo di medici, docenti e ricercatori di diversi istituti e università italiane, e pubblicata a metà dicembre da Archives of Disease in Childhood, una delle pubblicazioni scientifiche del British Medicine Journal (adc.bmj.com).
“Abbiamo preso spunto da ricerche realizzate in Australia e in Inghilterra sulle pubblicità del ‘latte 3’, quello di crescita. L’ipotesi della nostra ricerca era che la pubblicità dei ‘latti 2’, quelli di proseguimento, utilizzati tra i 6 e i 12 mesi, serva in realtà alle ditte per promuovere i ‘latti 1’, per neonati, con quella che nel gergo del marketing si chiama line extension (promuovo i prodotti di una linea, e al pubblicizzarne uno promuovo anche tutti gli altri)” spiega ad Altreconomia Adriano Cattaneo, epidemiologo e già responsabile dell’attività di ricerca sui servizi sanitari all’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico per l’infanzia Burlo-Garofolo di Trieste, coordinatore del gruppo di lavoro. Dopo aver raccolto le pubblicità comparse tra maggio 2012 ed agosto 2013 su tre periodici dedicati ai genitori, il gruppo di ricercatori ha intervistato 80 donne incinte e 572 madri con figli di età inferiore ai 3 anni, in otto città italiane.
Che cosa ha provato la vostra ricerca? Qual è l’obiettivo di questo lavoro?
Sappiamo che la Commissione europea deve rivedere, entro il 2016, la direttiva del 2006 sulla commercializzazione dei sostituti del latte materno, da cui deriva la legge italiana del 2008. Gruppi di consumatori e di promotori dell’allattamento in tutta Europa sono insoddisfatti dell’attuale direttiva, che limita le restrizioni alla pubblicità ai latti 1, come la legge italiana. Era nostra intenzione, ammesso che la nostra ipotesi si fosse rivelata vera, fornire a questi gruppi uno strumento di pressione sulla Commissione perché nella prossima direttiva il divieto di pubblicità sia esteso ai latti 2, e magari anche ai latti 3. L’ipotesi della nostra ricerca è stata confermata. Abbiamo mostrato a un campione di donne alla prima gravidanza le immagini pubblicitarie e, con interviste qualitative in profondità (della durata di circa un’ora, risposte registrate e poi trascritte), abbiamo visto che la maggioranza di queste donne sono confuse dalle immagini, non sanno valutare l’età del bambino, non capiscono cosa significhi il numero 2 e, anche dopo un’attenta lettura dei testi considerano il messaggio pubblicitario come riferito al latte artificiale in generale, e non a una particolare tipologia di prodotto. Abbiamo poi intervistato un campione di mamme con bambini fino a 3 anni, e abbiamo mostrato loro delle immagini di latti 1 delle 6 marche più vendute in Italia: Mellin, Nestlé, Plasmon, Aptamil, Hipp e Humana. Alla domanda “avete mai visto pubblicità di questi prodotti?” la maggioranza ha risposto sì. Cosa impossibile, perché questa pubblicità non esiste, è proibita.
Messaggi pubblicitari di questo tenore sono stati segnalati anche all’Antitrust o al Giurì di autodisciplina pubblicitaria?
I messaggi pubblicitari sono perfettamente legali, e quindi non possono essere denunciati. Violano il Codice internazionale dell’OMS/UNICEF, ma non la legge italiana. E quando in altre occasioni qualcuno ha sporto denuncia all’Antitrust, per pubblicità ingannevole, o al Giurì, per pubblicità scorretta, di solito l’istanza è stata respinta, perché la pubblicità non è stata ritenuta ingannevole o scorretta. In rare occasioni è stato imposto o chiesto di ritirare la pubblicità, ma si trattava di pochi e rari casi di eclatante scorrettezza. Ci sembra chiaro che si possono causare danni anche con una pubblicità che è perfettamente lecita e legale, questo è il punto. Non sappiamo se questo articolo, che presto uscirà anche in una versione italiana, modificherà i criteri di misura di Antitrust e Giurì. Vorremmo in ogni caso concentrare la nostra attenzione sulla Commissione europea e sulla prossima direttiva, anche perché quando Antitrust e Giurì riconoscono il carattere ingannevole o scorretto di una pubblicità, lo fanno con un ritardo che rende inutile la sentenza.
Che tipo di azioni mancano in Italia per prevenire fenomeni come quello descritto nella vostra ricerca? Chi dovrebbe realizzarle?
Sono sempre più le persone che si occupano di promuovere l’allattamento, compresi molti operatori sanitari, ma sono ancora pochi quelli che capiscono l’importanza di proteggerlo e ancor meno quelli che sanno dell’esistenza di strumenti, per quanto imperfetti, che possono servire a questo scopo.
La responsabilità è in primo luogo delle istituzioni, dal ministero della Salute al Servizio sanitario nazionale (Ssn). Ma anche le università sono colpevoli: la maggioranza degli operatori sanitari si laurea sapendone poco o nulla di allattamento, e ancor meno del Codice internazionale. Colpevoli sono anche le associazioni professionali (con qualche rara eccezione come l’Associazione Culturale Pediatri e la Federazione dei Collegi delle Ostetriche) che stanno più dalla parte delle ditte, da cui ricevono sussidi e benefici di vario tipo (anche questo è marketing), che dalla parte dell’allattamento.
Anche i media hanno le loro responsabilità: non parlano di queste cose mentre sono prontissimi a rispondere a qualsiasi sollecitazione, diretta o indiretta, da parte delle ditte. Forse perché dalle stesse un po’ dipendono per gli introiti pubblicitari (89 pubblicità, il 7% del totale di quelle comparse sulle tre riviste campione, riguardava latti artificiali, ndr). In questo momento non possiamo che sperare nella forza delle mamme e della cosiddetta società civile. Ci sono molte associazioni che da decenni si occupano dell’argomento: bisognerebbe rafforzarle. Recentemente si sono riunite in una coalizione, la Coalizione italiana per l’alimentazione dei neonati e dei bambini (www.cianb.it) e forse questa avrà più forza di quanta ne abbiano avuto finora le singole realtà.
Alcune madri intervistate nel corso della ricerca spiegano di aver ricevuto “campioni” in farmacia, in ospedale o presso i propri pediatri. È legale?
Non era tra gli obiettivi principali del nostro lavoro, ma abbiamo raccolto anche informazioni in questo senso, e in effetti circa il 20 per cento delle madri ha riportato questa pratica. Per i latti 1 sarebbe proibita per legge, ma sappiamo che ancora succede, anche se in misura molto minore rispetto, per esempio, a 10 anni fa. Non è proibita, invece, la consegna di campioni di latte 2 e 3, o di prodotti per l’alimentazione infantile, purché non siano etichettati “sotto i 6 mesi”. Ma anche per questa pratica funziona la line extension, oltre che la fidelizzazione (altra strategia di marketing). Una parte delle consegne di campioni avviene all’esterno del Ssn, ma purtroppo ci sono ancora pediatri ed operatori sanitari, sempre meno per fortuna, che si prestano al gioco.
Perché è così difficile “affrontare” il potere delle imprese del latte in polvere?
Si tratta di un mercato non enorme, stimato tra i 300 e i 400 milioni di euro l’anno, ma con alto valore aggiunto. Inoltre, si porta dietro tutto il mercato dell’alimentazione infantile, ben più grande (778 milioni di euro nel 2014). La forza di chi promuove l’allattamento, invece, è molto vicina a zero, anche perché il ministero della Salute e il Ssn non la considerano una priorità. Le ditte, inoltre, esercitano lobby a livello sia europeo sia nazionale per far sì che non si pongano limiti al marketing, oppure si pongano limiti non rigorosi. Così i tassi di allattamento aumentano di pochi punti percentuali l’anno, tanto che poco più del 5% le madri allatta in maniera esclusiva fino a 6 mesi, e circa il 20% continua ad allattare oltre l’anno. —
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