Diritti / Attualità
Il golpe in Myanmar e le responsabilità dei colossi dell’industria tessile
Le aziende dell’abbigliamento attive nel Paese devono sostenere concretamente i lavoratori che si battono per i diritti e la democrazia. L’appello della Clean Clothes Campaign. Occorre solidarietà, vigilanza e trasparenza sulla filiera, spiega Deborah Lucchetti di Abiti Puliti
Una condanna decisa al colpo di Stato in Myanmar e un appello diretto alle aziende di abbigliamento attive nel Paese perché diano appoggio ai lavoratori che si battono per i diritti e la democrazia arriva da Clean Clothes Campaign, una rete globale formata da più di 230 Ong e sindacati attivi in 45 Paesi, che a tutela dei salari dei lavoratori durante la pandemia ha fatto una campagna globale affrontando anche aziende come H&M, Primark e Nike.
Quella dell’abbigliamento e delle calzature in Myanmar è un’industria, per la maggior parte di proprietà straniera, da sei miliardi di dollari, che soprattutto negli ultimi dieci anni ha conosciuto nel Paese una crescita decisa, complice anche il basso costo della forza lavoro, facendo dell’Europa il suo mercato principale. E il cui futuro, però, appare oggi incerto.
La posizione dei lavoratori dell’abbigliamento in Myanmar rischia infatti di essere sempre più critica. Prima ancora del golpe, è stata la pandemia, fra tagli salariali e licenziamenti, ad assestare un duro colpo al settore, che prima della crisi nel Paese dava lavoro a più di 700mila persone, soprattutto donne.
Non solo: come riportato dal Center for Research on Multinational Corporation (SOMO), centro di ricerca sulle imprese multinazionali che fa parte del network della Clean Clothes Campaign, nelle indagini portate avanti dal 2015 sulla situazione lavorativa nell’industria dell’abbigliamento orientata all’esportazione in Myanmar, sono emerse violazioni costanti dei diritti dei lavoratori.
Nel 2019 -anno in cui il settore rappresentava il 30% delle esportazioni-, i lavoratori hanno portato avanti una lotta per ottenere condizioni migliori di lavoro che li ha visti impegnati in diversi scioperi militanti per salari più elevati e maggiore sicurezza.
Con il colpo di Stato, la drammatica situazione portata dalla pandemia, con crisi salariale, blocchi e interruzioni delle filiere globali, cali di domanda e chiusura delle fabbriche, nonché con l’interruzione delle battaglie sindacali, rischia di acuirsi. E migliaia di lavoratori tessili, insieme ai lavoratori di altri settori si sono mostrati di nuovo attivi nel manifestare contro la presa del potere militare. Molti unendosi al movimento di disobbedienza civile.
“Il movimento dei lavoratori come sempre è uno dei driver fondamentali del cambiamento e della tenuta democratica del Paese -spiega ad Altreconomia Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti-. Per questo è così importante la massima solidarietà internazionale, concreta e non formale, da parte delle organizzazioni internazionali, Ong, ma anche da parte degli attori economici che hanno relazioni costanti con questo territorio”. E aggiunge: “Questo appello è estremamente importante perché in un momento così delicato qualunque azione incisiva che vada a toccare le leve economiche risulta fra le più efficaci. C’è bisogno di un posizionamento pubblico da parte di tutti e quindi anche dei brand che hanno investito in questo Paese e hanno da tempo ormai stretto rapporti forti con i fornitori collocati in Myanmar”.
Quando si mettono in pericolo le regole democratiche è infatti rischioso che le attività economiche siano potenzialmente complici di azioni che tendono a reprimere le azioni sindacali o la libertà di espressione dei lavoratori. “Per questo -prosegue Lucchetti- è fondamentale che i marchi committenti si accertino, attraverso politiche di vigilanza sull’impatto e sul rispetto dei diritti umani nelle loro catene produttive, che proprio in questa fase i diritti fondamentali dei lavoratori non siano messi a rischio. Chiediamo alle imprese di rendere pubbliche le loro operazioni e le loro politiche di monitoraggio”.
In assenza di un quadro democratico certo può succedere che i lavoratori vengano anche impiegati in condizioni di lavoro forzato. “Fondamentale che le imprese committenti internazionali e straniere si sottraggano o blocchino all’origine questo tipo di pratiche inaccettabili. Sul tema della trasparenza, che non è ancora obbligatoria, abbiamo lanciato una campagna molti anni fa che ha già dato risultati importanti e molti brand hanno aderito. Chiediamo alle imprese di pubblicare dei dati facilmente accessibili e utilizzabili da tutti gli interlocutori in formato aperto”. E aggiunge: “Si tratta di informazioni minime ma fondamentali per fare quel lavoro di scrutinio democratico necessario a capire se quel dato fornitore agisce in un contesto di rispetto dei diritti oppure no. In questo particolare momento, è fondamentale che il tema della trasparenza venga ulteriormente incrementato. E che tutti i marchi che non hanno adottato questa pratica virtuosa lo facciano”.
Anche perché le filiere globali orientate alla compressione dei costi e all’esportazioni hanno diversi punti deboli. “Il più grande punto debole è che sono basati sulla logica della crescita infinita. Quindi una riduzione della domanda, per qualunque motivo essa sia, ha come immediata ripercussione il fatto che lavoratori già poveri si troveranno in situazioni ulteriormente aggravate”. E conclude: “Il problema più grande è capire cosa significa ripensare l’industria tessile mondiale che deve tornare a mettere al centro il tema dei diritti ma anche quello di una riduzione delle produzioni a fronte di una riduzione dei consumi, riorganizzandosi intorno al tema della sostenibilità”.
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