Diritti / Opinioni
I meccanismi di dominio dell’ideologia neoliberale
Dai Chicago Boys ai think tank, i conservatori hanno imposto un potere capillare e creato sudditi. Ma le strategie di resistenza ci sono. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci
Siamo così immersi, da un trentennio e oltre, nel magico mondo dell’ideologia neoliberale, che abbiamo perso anche le parole per descrivere il presente e le nostre reali condizioni di vita. Parole come padrone, classe e lotta di classe, sfruttamento e lavoro servile, schiavismo e capitale, sono sparite dal lessico corrente, come se le fattispecie indicate da ciascun vocabolo appartenessero a un passato estinto e da dimenticare. Quando un capitalista, pardon un imprenditore della finanza, come Warren Buffett rompe il tabù e dice la verità, ecco che i paradossi balzano agli occhi: “La lotta di classe esiste eccome”, pare abbia detto una volta, “e la mia classe l’ha vinta”. La battuta, citatissima, è diventata celebre, tanto da annacquare, paradosso nel paradosso, la forza di tale denuncia: è diventata un innocuo luogo comune, una trascurabile banalità.
Marco D’Eramo, in un libro di raro acume e altrettanto rara potenza, parla di “Dominio” (l’editore è Feltrinelli) e invita a riflettere sulla trama nascosta della società presente: una struttura di potere capillare, capace di invadere tutti gli ambiti della vita personale e collettiva, con pochi potenti al vertice e una massa sterminata di sudditi. Una trama resa quasi invisibile, nonostante la sua brutale sostanza, perché presentata e soprattutto percepita come qualcosa di naturale, quasi un ordine spontaneo delle cose. Niente di più falso. Il dominio presente è il frutto di un’offensiva storicamente identificabile, dal trionfo dei Chicago Boys in poi, col Cile di Augusto Pinochet come laboratorio del mondo nuovo, un mondo realizzato smontando pezzo per pezzo lo stato sociale e anche il lessico corrente, la narrazione del mondo, con enormi investimenti nella comunicazione, nella cultura e nell’istruzione universitaria.
8.248: i think tank esistenti nel mondo: il 52% si trova in Europa e Nord America. I think tank finanziati dal grande capitale, soprattutto negli anni Ottanta, sono stati il principale veicolo dell’ideologia neoliberale
Prendiamo, fra i vari ambiti, il mondo della tecnologia, esploso negli ultimi decenni. Anche lì, dice D’Eramo, il “panorama” è stato definito dall’ideologia neoliberale. Le autostrade dell’informazione sono state create e sono gestite dal capitale, nella forma di un sostanziale oligopolio, e si è rapidamente affermata una società della sorveglianza con raffinatissimi strumenti di tracciatura digitale personalizzata. Tutti sappiamo che è così, o pensiamo di saperlo, senza però cogliere tutti i risvolti di simili apparati di potere: tendiamo a pensare che non ci siano alternative, se non un improbabile rifiuto delle tecnologie. In verità un’alternativa ci sarebbe, ma è diventata “impensabile” per via del dominio ideologico che dicevamo: “Non si sottolineerà mai abbastanza”, scrive D’Eramo, “quanto il nuovo panorama tecnologico sia definito dall’ideologia neolib. A tal punto che a nessuna forza politica rilevante è venuto in mente non dico di proporre, ma neanche di aprire un dibattito pubblico sull’idea che Internet debba essere pubblico”.
“Dominio”, dunque, è rendere letteralmente impensabili le alternative; è riuscire a far credere che il capitale non sia il padrone del mondo e delle nostre vite come mai avvenuto in passato. Ci mancano le parole, i pensieri, gli strumenti per comprendere davvero il presente e agire di conseguenza: ci manca -o esitiamo a metterla a fuoco- un’ideologia altrettanto forte di quella neoliberale e in grado di contrastarla e sconfiggerla. C’è da scoraggiarsi? No, dice anche D’Eramo. “Ricordiamoci che nel 1947”, scrive, “i fautori del neoliberismo dovevano quasi riunirsi in clandestinità, sembravano predicare nel deserto, proprio come noi ora”. Dunque diciamocelo, siamo sudditi, prede indifese di un capitale vorace e distruttivo: ma non è per sempre.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”
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